Italia Nostra

Data: 3 Settembre 2014

Vibo Valentia: appello per accesso area demaniale del Belvedere

Un cancello sbarra l’accesso all’area demaniale del Belvedere (versante Praia di fuoco) che Giuseppe Berto nel 1956 aveva definito un posto carico di potenza misteriosa. A cento anni dalla sua nascita si tratta di un fatto che dovrebbe scandalizzare e indignare il mondo intero. La SezioneVibonese di Italia Nostra lancia un forte appello alle istituzioni locali e nazionali, ai cittadini, agli scrittori, a docenti e giornalisti e alla gente comune a protestare e ribellarsi affinché le autorità intervengano per ridare un luogo così carico di bellezza e stupefazione, all’intera umanità. 

Nicola Rombolà

(Responsabile comunicazione  Sezione Vibo Valentia di Italia Nostra)

Capo Vaticano

 “Forse perché c’ero arrivato all’improvviso e pieno di scetticismo, mi pareva quello il luogo più bello che avessi mai visto … Entro quei visibili confini , c’era il mare che quando era nuovo e misterioso, aveva fatto nascere i miti di Scilla e Cariddi e delle Sirene, e la favola di Ulisse … Ormai gli uomini hanno  esperimentato troppe cose per lasciar sopravvivere una poesia così legata agli elementi della natura …”

Che cosa è rimasto di quel mare da dove nascono i miti? Gli occhi increduli, lo sguardo sbarrato. Chi volesse rivivere quella straordinaria estasi che ha vissuto Berto (l’autore de Il male oscuro, Anonimo Veneziano, La gloria, il Brigante, Il cielo è rosso, La Fantarca,  ecc.) nella sua celebre e splendida descrizione scritta il 10 agosto del 1956 (Il Giornale d’Italia), di quel vasto orizzonte che si protende dalle scogliere che si ergono con una potenza magica, arcana, in cui il sentimento del mistero rapisce la dimensione esistenziale e che porta a rievocare i famosi versi dell’Infinito di Giacomo Leopardi (“Così tra questa immensità/ s’annega il pensier mio:/ e il naufragar m’è dolce in questo mare”), si vede inesorabilmente chiusa la strada non dalla siepe che “da tanta parte il guardo esclude”, ma da un freddissimo e terribile cancello con scritto “proprietà privata” . Non si apre più la meravigliosa vista delle isole Eolie dal Belvedere (versante Praia di fuoco) dove  il promontorio  scoscende a picco sul mare con delle insenature che hanno fanno gridare a Berto il miracolo della natura, ma sembra campeggiare il terribile verso che Dante legge sulla porta infernale “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate».

Solo in Calabria, accade che la parola “demanio” si trasformi in “demonio” perché vige il demone delle potenze oscure e occulte, che invece di far prosperare la poesia dei miti, concepisce la distruzione del genius loci. D’altronde lo aveva compreso Berto, quando rifletteva sul perché i calabresi invece di tutelare e proteggere l’ immensa ricchezza (costituita dal paesaggio e dall’eredità della civiltà contadina), “si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali” (La ricchezza della povertà, Resto del Carlino, 1972).  A cento anni dalla sua nascita è questo il regalo che Capo Vaticano (e la Calabria) ha riservato al grande scrittore veneto, dopo aver eletto come sua patria spirituale le sue rocce e il suo mare e dove non hanno trovato quiete le sue spoglie? Un cancello che oltraggia e  cancella la sua memoria e le sue battaglie per salvaguardare Capo Vaticano da una feroce aggressione che continua inesorabile, come aveva “vaticinato” il 31 luglio del 1977 in occasione della mostra del 31 luglio 1977 sulla civiltà scomparsa: “I calabresi si sono venduta l’anima per un piatto di lenticchie. Sulla Calabria si è abbattuta una distruzione più maligna di quella dei terremoti, e i principali responsabili sono le amministrazioni locali – quasi tutte avide e ottuse – e i vari governi e governanti che hanno affrontato e continuano ad affrontare il problema del Mezzogiorno con stupefacente rozzezza …  Da vent’anni abito a Capo Vaticano e ho fatto donchisciottesche battaglie per fermare la rovina”.

Una risposta deve esserci dalle istituzioni locali o statali (che al momento hanno chiuso gli occhi) perché ci devono dire se i diritti fondamentali presenti nella Costituzione hanno valore nella ex provincia di Vibo Valentia, nella Regione Calabria e nella nazione Italia, o se invece impera l’arbitrio, l’inciviltà, il crimine, la sconfitta della luce, e dobbiamo lasciare ogni speranza “tra la perduta gente” di Calabria, come aveva narrato Umberto Zanotti Bianco nel 1928, constatando la povertà umana e materiale di alcune comunità dell’Aspromonte negli anni successivi al terremoto del 1908.

La Delegazione Vibonese di Italia Nostra, presieduta da Gaetano Luciano, nel nome del fondatore di Italia Nostra Zanotti Bianco che, come Berto, pur non essendo nato in Calabria, ha amato questa terra e ha speso la sua esistenza per riscattarla attraverso l’istruzione, la cultura e la difesa dei beni culturali e paesaggistici, lancia un accorato appello a scrittori, artisti, docenti universitari e delle scuole, giornalisti e cittadini, affinché si faccia come ha fatto Berto “donchisciottesche battaglie per fermare la rovina” con coraggio e determinazione, per  abbattere quel cancello che uccide il mare dei miti e per restituire questo bene pubblico allo sguardo estatico e poetico che ancora resiste in tanta parte dell’umanità; e simbolicamente, far aprire questa terra ad una nuova responsabilità etico-civile, morale e culturale. La tutela e la salvaguardia dei beni collettivi devono essere una risposta fondamentale contro ogni forma di degrado, di inciviltà e di oppressione criminale, come aveva anche affermato di recente l’illustre archeologo e intellettuale calabrese di fama internazionale, Salvatore Settis a Tropea, nella sua lectio  magistralis sulla salvaguardia della bellezza del paesaggio e dei beni storico-artistici, in relazione al dettato costituzionale, parafrasando la citazione tratta daDostoevskij “La bellezza salverà il mondo”, con l’assunto che “dobbiamo essere tutti noi a salvare la bellezza”.

Se non si porta avanti questa lotta e questo impegno per la tutela del paesaggio e dei beni collettivi accompagnati dalla nascita di una coscienza etico-civile, come inderogabile e urgente progetto culturale, che senso ha ricordare Giuseppe Berto e la sua opera? Diventa tutto soltanto vuota retorica, esercizio di vanità accademica e oltraggiosa demagogia, perché tanti altri cancelli sbarreranno gli occhi, e sapremo soltanto assistere rassegnati e indifferenti alla dissacrazione e distruzione dei luoghi e della loro anima, e all’inquinamento materiale e morale: “Se la conoscenza dell’alfabeto, non diventa cultura, dà forza all’ignoranza e la disponibilità di mezzi rende più potente il disonesto. Il furbo …” (Berto, La ricchezza della povertà, 1972).

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