Italia Nostra

Data: 13 Settembre 2023

La crisi dell’UNESCO si riverbererà ancora una volta su Venezia e la sua Laguna?

PIazza San Marco- Venezia - Foto di Flavia Corsano

Si è aperta due giorni fa la 45a sessione del World Heritage Committe, a Riyad, dove per la seconda volta l’UNESCO o, meglio, i suoi organi tecnici tenteranno di far iscrivere il sito Venice and its Lagoon nella Danger List, la lista dei siti in pericolo.

La strada per ottenere questa speciale tutela (perché così deve esser letta) ha avuto inizio nel 2011, quando l’associazione nazionale Italia Nostra inviò tre lettere a Kishore Rao, direttore del Word Heritage Centre dell’UNESCO, sostenendo che erano «venuti a mancare i presupposti per includere il sito Venice and its Lagoon nella World Heritage List, la lista dei siti culturali di importanza mondiale, meritevoli di essere protetti e conservati come patrimonio di tutta l’umanità, in quanto il governo italiano e le amministrazioni locali sono venuti meno all’impegno assunto con l’UNESCO di tutelare la città di Venezia e la sua Laguna», motivando le ragioni di tali asserzioni. Rao ci inviò una lettera di ringraziamenti e il Word Heritage Centre si mise al lavoro.

Dopo tre anni di silenzi e ulteriori sollecitazioni da parte nostra, il tema di Venezia irruppe nella sessione annuale dei lavori del Committe che si svolgeva a Doha nel 2014; seguirono quattro decisioni dello stesso Comitato e due missioni in loco di esperti, finché nel 2021 a Fuzhou, nella 44a sessione dello stesso Committe, gli organi tecnici dell’UNESCO presentarono la bozza di decisione (Draft decision) in cui si inscriveva il sito nella Danger List.

A sorpresa, un emendamento proposto dal rappresentante dell’Etiopia, in ottimi rapporti di collaborazione (anche controversi) con l’Italia, rovesciò completamente il testo, cancellando le parti scomode per il governo italiano: si riconoscevano progressi nella gestione e tutela del sito, e non lo si proponeva più per l’iscrizione nella lista dei siti in pericolo. Solo la rappresentante della Norvegia tentò timidamente di opporsi, accogliendo infine il nuovo testo, completamente sovvertito, «with esitation».

Crediamo che la nostra idea di rivolgerci all’organizzazione internazionale a tutela del patrimonio fosse corretta, al di là degli obiettivi non ancora raggiunti. Il Committee nella Decision di Doha, che colse impreparata la diplomazia italiana, fece proprie molte istanze nostre e di altre associazioni, come la richiesta allo Stato italiano di un legal document che imponesse l’estromissione dalla Laguna delle navi anche commerciali di maggiori dimensioni, la regolamentazione del numero e del tipo di imbarcazioni e il rispetto dei limiti di velocità, l’istituzione di una strategia di turismo sostenibile e la valutazione di tutti gli impatti di grandi progetti in Laguna.

Nel 2021 l’occasione, afferrata al volo dal Committe per evitare di iscrivere il sito nella Danger List, fu la promulgazione del decreto sulla croceristica, con il divieto di transito per il Bacino di San Marco e il Canale della Giudecca e lo spostamento del traffico per il Canale dei Petroli (vero killer della Laguna, n quanto ne provoca l’erosione) e l’attracco ‘provvisorio’ nella zona industriale di Marghera. Ciò che in 2 anni ha trasformato la Laguna, come avevamo denunciato, in un porto diffuso (ben 7 attracchi, 8 con quello in rada), con buona pace della tutela degli apparati morfologici lagunari che secondo la stessa UNESCO devono invece essere tutelati «come le chiese e i palazzi della città».

Nulla è stato fatto per evitare il cambiamento di destinazione d’uso delle abitazioni da residenziali a turistiche, che ha spopolato Venezia. E la delibera blocca alberghi di qualche anno fa non è altro che uno specchietto per le allodole, prevedendo moltissime deroghe, come per il Tronchetto dove sono in costruzione tre nuovi alberghi caldeggiati dal sindaco; soprattutto basta pagare per aggirarla: così è stato per il nuovo mega albergo nel palazzo dell’ex camera di commercio, la cui riconversione in struttura ricettiva ha fruttato alle casse del Comune ben 10 milioni. Non si trovano case in affitto per residenti, anche a caro prezzo e proprio in questi giorni il numero degli alloggi a destinazione turistica ha superato quello residenziale. Il sindaco non vuole avvalersi del così detto “emendamento Pellicani” (art. 37 bis del decreto legge 50/2022) che introduce la facoltà per il solo Comune di Venezia di limitare le locazioni turistiche a 120 giorni all’anno, e recentemente ha dichiarato in merito al suo progetto di far diventare Venezia un campus universitario con 60 mila studenti: «finché le case sono occupate dai veneziani non possiamo metterci i giovani». Così da 170 mila abitanti a metà secolo scorso siamo passati a 49 mila (ufficiali, ma in realtà molti meno) e continuiamo a scendere di 1000 unità all’anno. Fra pochi decenni non resterà nessun abitante e l’ex città diventerà un palcoscenico vuoto calpestato solo da orde di turisti. Con la scomparsa degli abitanti muore anche la lingua di Goldoni, perché, come sostengono i linguisti, il dialetto parlato a Mestre è diverso dal veneziano.

È una sorta di silente genocidio culturale che comprende anche la Laguna: assieme alle navi e ai nuovi progetti per accoglierle (banchine portuali, conterminazioni rigide nel martoriato Canale dei Petroli) ci sono i progetti di nuovo accesso alla città. Il più temibile è il “Montiron”, l’apertura di un percorso di navigazione attraverso ambienti primari miracolosamente giunti sino a noi, che verranno distrutti dalla forza delle onde. Il “moto ondoso” disintegra le strutture morfologiche lagunari, mette in pericolo la vita degli abitanti e, con le emissioni inquinanti, mina la loro salute e la conservazione delle pietre della città. Durante la regata storica del 3 settembre, il sindaco su questo punto è stato contestato perfino dalle remiere, ma l’eccezionale protesta è stata totalmente censurata dalla diretta televisiva nazionale.

Secondo molti, c’è anche un problema di rappresentanza: il sindaco non votato dai veneziani è stato invece eletto dalla terraferma, dove gli abitanti sono 170 mila e dove c’è il suo bacino elettorale. Purtroppo le due città di Venezia e di Mestre sono state amministrativamente unite dal fascismo e ben 5 referendum per ridare loro autonomia sono falliti (ed è ovvio, se pensiamo che chi decide sono i mestrini che contano numericamente molto di più).

E in questa situazione esplosiva e mortifera – la scuola dell’isola di Sacca Fisola quest’anno non riaprirà più nonostante la protesta: nessuna deroga è stata concessa per il numero declinante di bambini – il Comune si è indebitato per costruire il palazzetto dello sport a Tessera, in pregiata zona agricola. Fra poco il sindaco compirà il secondo mandato, ma invoca una deroga per il terzo, dovendo, come sostiene, «finire il lavoro».

E ora si riparla nuovamente dell’UNESCO e delle sue prossime decisioni su Venezia, a Riyad.

Quali mirabolanti interventi in extremis governo e amministrazione comunale tireranno fuori dal cilindro per evitare l’iscrizione? Di certo punteranno sul provvedimento di imposizione del contributo di accesso di 5 euro. Tassa inefficace e odiosa, contestata con forza da tutti i veneziani, ulteriore passo verso la disneylandizzazione della città, ridotta a parco di divertimenti in cui si paga per entrare, ma certamente utilissima al Comune per fare cassa. Ma ci sono altre mirabilia da presentare alla sessione, come la recentemente istituita Fondazione Venezia Capitale Mondiale della Sostenibilità, un ossimoro perfetto, di cui l’entusiasta presidente è Brunetta.

Tornando a Riyad, per non illuderci troppo e infondatamente, è opportuno tentare di vedere da vicino come funziona questa fantomatica ‘UNESCO’, che non è un corpo unico solidale, ma risulta formata da più organismi, spesso confliggenti perché mossi da scopi diversi.

L’United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization fu fondata nel 1945 «to contribute to peace and security by promoting collaboration among the nations through education, science and culture». Dopo il successo, negli anni ’60 del secolo scorso, del salvataggio e della traslazione dei monumenti nubiani condannati dalla costruzione di una diga, l’Organizzazione internazionale immaginò un’altra campagna conservazionista, su ben altra scala, visionaria e di grande respiro: la tutela di quei beni culturali riconosciuti come irrinunciabile espressione dell’umanità intera o naturali connotanti il pianeta.

Nel 1972, 20 Stati aderenti all’UN sottoscrissero la Convention Concerning the Protection of the World Cultural and Natural Heritage 
(o World Heritage Convention) in cui si impegnavano a tutelare i siti iscritti in una lista formulata da loro stessi. Oggi gli Stati firmatari sono 195, con l’ultimo sottoscrittore, Tuvalu, che condivide con Kiribati (e Venezia) il rischio di essere inghiottito dal mare, a causa del riscaldamento climatico.

Espressione di un sentire fortemente condizionato dai traumi della Seconda guerra mondiale, quindi datato, forse velleitario, e, dopo molte correzioni, tuttora sbilanciato (“too White and European”), è comunque riconosciuto da molti come importante strumento per la salvaguardia del patrimonio mondiale, sebbene le voci critiche si siano fatte sempre più forti.

La Convention istituì un’assemblea degli Stati aderenti, impegnati nel delineare le liste, il World Heritage Committe, formato da una rappresentanza di 21 Stati eletti in teoria a rotazione dalla biennale General Assembly di tutti gli Stati sottoscrittori. Il mandato dura dal momento dell’elezione nella sessione ordinaria della General Assembly sino alla terza sessione ordinaria seguente, di solito 4 anni.

Il Committe si riunisce a cadenza annuale, coadiuvato da un organo consultivo, gli Advisory Bodies, composto da ICOMOS (International Council on Monuments and Sites), ICCROM (International Centre for the Study of Preservation and Restoration of Cultural Property) per i beni culturali, e IUCN (International Union for Conservation of Nature) per quelli naturali. Nel 1992, a coordinamento delle attività di studio e analisi degli Advisory Bodies e con compiti organizzativi anche delle riunioni annuali, venne istituito il World Heritage Centre, con sede a Parigi.

La responsabilità delle liste, compresa quella dei siti riconosciuti come in pericolo, è totalmente in mano agli Stati sottoscrittori e in particolare ai 21 del Committe (dove l’Italia si è premurata di farsi eleggere all’indomani dello scampato pericolo di Fuzhou). I rappresentanti dei 21 Stati, che come dall’articolo 9 della Convention dovrebbero essere scelti tra gli esperti in conservazione del patrimonio culturale o naturale, arrivano invece dalla diplomazia, e dunque sono ben attrezzati nel tutelare i presunti interessi nazionali.

Piuttosto che alla conservazione e alla tutela, gli Stati infatti sono interessati principalmente, se non unicamente, a iscrivere nella lista più siti possibili, anche di scarsa rilevanza mondiale, ritenendo di guadagnare prestigio internazionale, con ricadute notevoli in termini di visibilità e appetibilità dei luoghi, lanciati sulla piazza dei prodotti turistici più agognati dall’umanità intera. La lista da mezzo di tutela si è rivelata strumento di distruzione.

Nel Committe prevalgono alleanze strategiche e un vero «mercato di scambi di favori tra Paesi» (come dichiarò Francesco Bandarin, già direttore del World Heritage Centre, all’indomani della decisione su Venezia del 2021). Kishore Rao nel 2010 aveva considerato il conflitto di interesse degli Stati – giudici di sé stessi – «one of the greatest ironies of the World Heritage process and one that runs counter to the spirit of the Convention». Tutto ciò ha creato una grave crisi di autorevolezza e affidabilità della Convention, che sta minando la credibilità dell’UNESCO stessa.

C’è una vastissima letteratura di studi relativa al patrimonio culturale, di antropologia sociale e culturale e di politica culturale ed economica su questa riconosciuta crisi, ma le molte correzioni proposte si infrangono sempre contro il potere decisionale in mano agli Stati. Si era proposto ad esempio che nel periodo del mandato gli Stati elegantemente non candidassero propri siti, per palese conflitto di interessi. Sarebbe stato un buon punto di partenza per riformare il Committee: non potendo proporre proprie candidature, i 21 Stati avrebbero partecipato solo per servire la Convention e non per coltivare i propri interessi. Ovviamente tale proposta è stata rigettata dai 21 (forse a gestire le proposte di riforma dovrebbe essere una General Assembly dotata di maggiori poteri). Così quest’anno ben 14 su 53 siti proposti per l’iscrizione sono di proprietà dei 21 Stati membri del Committe. I 21 non hanno nemmeno l’obbligo di astenersi quando il voto riguarda un loro sito.

Esistono anche stati ‘virtuosi’, basta vedere il limpido comportamento della Norvegia nel 2021, attenta ai diritti delle popolazioni indigene, a dare voce alla General Assembly, a sostenere le decisioni tecniche degli Advisory Bodies, e (con l’appoggio di Svizzera, Paesi Bassi e Colombia e a volte Guatemala), a contenere, inutilmente, lo strapotere oligarchico dei 21 (si veda lo studio di Brumann dello stesso anno).

Gli Advisory Bodies compiono un lavoro notevole – analizzando, come quest’anno, lo stato di conservazione di 205 siti, di altri 58 iscritti nella Danger List, e di 50 nuove proposte di iscrizioni – spesso vanificato da alleanze sotterranee tra Stati (alcuni di loro minacciano addirittura di scegliere altri Advisory Bodies, più pieghevoli). Si può stimare che nell’ultima riunione del Committe tenutasi nel 2021 (quella programmata per il 2022 in Russia saltò per comprensibili motivi) la percentuale di scostamenti tra le analisi e le proposte degli Advisory Bodies, cioè le Draft decisions, e le Decisions finali fu di quasi il 4% per la Danger List, di quasi il 5% per l’analisi dello stato di conservazione dei siti esaminati, e di quasi il 40% per le nuove nomine. La percentuale sale al 100% relativamente ai siti proposti per l’iscrizione nella Danger List. Gli Advisory Bodies ne avevano proposti 7, nessuno accettato, nemmeno il castello di Buda, che stava per essere pesantemente manomesso dalla ricostruzione ideologia dei seguaci di Orban (in loro soccorso venne un emendamento della solita Etiopia, con l’opposizione della solita Norvegia, che alla fine accettò anche in questo caso «with a certain esitation»).

Quest’anno gli Advisory Bodies sembrano aver cambiato strategia, concentrandosi solo su 4 casi eclatanti e probabilmente giudicati irrinunciabili: Venice and its Lagoon, Volcanoes of Kamchatka, sito che vede rimossa in parte la protezione legale per facilitarne lo sviluppo turistico e infrastrutturale, e due siti ucraini.

La pratica di scavalcare gli organi consultivi e rovesciare i loro pareri (secondo lo studio di Brumann del 2021) si è affermata dalla sessione di Brasilia del 2010, ma mai come nel 2021 si è manifestata così apertamente: come sostiene sempre l’Etiopia, le raccomandazioni degli esperti e le loro Draft Decision non vincolano il Committe, che è sovrano. Un conflitto impari, quello tra Advisory Bodies e Committe, dal momento che gli organi consultivi sono appunto privi di potere decisionale, e qualche volta sono anche fuorviati nelle analisi dal mancato accesso a informazioni provenienti da enti e studiosi indipendenti, soprattutto durante le missioni sul posto.

Si può dunque fare una previsione di come si concluderà la 45a sessione?

Intanto si può presumere che la lunga marcia della Cina (attualmente 56 siti) per diventare leader anche nella Convention continuerà, avendo proposto un sito già accettato senza riserve sin in sede di organi consultivi (la Cina spende cifre colossali per istruire le candidature). Delle candidature italiane (ora 58 siti) invece, una, The Cultural Landscape of Civita di Bagnoregio, è stata ritirata dallo stesso Stato, e l’altra, Evaporitic Karst and Caves on Northern Apennines, è proposta per il rinvio dagli organi tecnici, anche perché il monte Tondo – non proprio conosciuto universalmente come bene dell’umanità intera – è stato oggetto di cavazioni.

Per quanto riguarda i 2 siti proposti per la Danger List di proprietà dei 21, possiamo azzardare qualche previsione, analizzando la composizione del Committe e cercando di capire chi potrebbe accorrere in aiuto di Italia (e Russia) in cambio di altri appoggi.

L’attività di «intense lobbying» si svolge già in fase preparatoria del Committee, come testimonia il successo degli ambasciatori di Inghilterra e Australia (ben documentato dal giornale «The Guardian») nel non far proporre, nemmeno dagli organi consultivi, nella Danger List o comunque tra i siti potenzialmente in pericolo i siti Palace of Westminster and Westminster Abbey including Saint Margaret’s Church e Great Barrier Reef, e ci si può chiedere quale sito sia più a rischio della barriera corallina – indipendentemente dalle responsabilità della sola Australia –, che secondo le risultanze degli studi esaminati dall’IPCC sparirà per il 70–90% quando si raggiungeranno 1,5 C° di riscaldamento globale.

L’Italia nella fase preparatoria non è stata altrettanto efficace, oppure gli organi consultivi sono Stati irremovibili. Ora il governo sta recuperando, come deduciamo dalle dichiarazioni per nulla trasparenti del ministro Sangiuliano apparse su «Il resto del carlino»: «Dossier Unesco? Me ne sto occupando, ma non ne parlo», e dalle informazioni sulla stampa cittadina di una delegazione veneziana invita a Ryiad.

Molti studi (ad esempio di Bertacchini, Liuzza, Meskell, Claudi, Ray) sulle alleanze interne al Committe rilevano che i gruppi di Stati più determinati nel tutelare i loro interessi nazionali, nella loro attività di nomina – nonostante gli appelli a fermarsi – e nell’opposizione agli organi tecnici sono i BRICS, che proprio quest’anno hanno deciso di ammettere nella loro sfera strategica altri 6 Stati. Nel Committe ci sono 7 tra BRICS (India, Russia e Sudafrica) e membri dal 2024 (Argentina, Egitto, Arabia Saudita ed Etiopia che tanto si spese per salvare l’Italia dalla figuraccia internazionale). I BRICS a Riyad hanno un sito direttamente candidato alla Danger List, 1 altro che potrebbe essere segnalato come potenzialmente in pericolo (entrambi russi) e presentano 7 nuove nomine. Questi Stati emergenti si aiutano vicendevolmente per inscrivere più siti possibili e, non avendo la maggioranza (cioè i 2/3 dei 21 membri), cercheranno alleanze per sostenere i loro interessi nazionali.

Cosa che del resto faranno e stanno facendo quasi tutti gli Stati membri, per evitare problemi ai loro siti in pericolo o a quelli dei loro alleati, o per sostenere le proprie candidature o rielezioni: Egitto, Mali e Messico hanno siti iscritti nella Danger List che gli organi tecnici hanno proposto di mantenervi; Italia e Russia, come abbiamo visto, hanno siti candidati alla Danger List; 12 nazioni hanno siti potenzialmente in pericolo, e fra essi sono nel Committe Nigeria e ancora Russia. Ben 12 Stati membri hanno proposto una candidatura; di questi, gli Advisory Bodies raccomandano il differimento delle iscrizioni dei siti proposti da Belgio, Grecia, India, Italia, Russia e Ruanda, perché immature (per mancanza di garanzia di tutela, incompleta documentazione etc.).

Ricordo inoltre che 9 Stati degli attuali 21 erano già membri del Committe nel 2021; in quell’occasione non mostrarono particolari preoccupazioni per la conservazione del sito Venice and its Lagoon, e si può presumere continuino a non darsene pena; fra questi (oltre ai BRICS, e agli altri Stati già citati necessitanti appoggi), c’erano Oman e Thailandia, che si possono dunque aggiungere all’elenco degli indifferenti alle sorti di Venezia.

Dei rimanenti Stati che siedono nell’attuale Committe, il Giappone ha esibito doti di spregiudicatezza, facendo iscrivere ad esempio una città mineraria abbandonata, ora rilanciata come meta turistica (vedansi gli studi di Keough); quelli con partecipazione finora minore nel Committee, Quatar, Saint Vincent e
Grenadine e Zambia, hanno tutto l’interesse a non inimicarsi i più potenti.

Così la redditizia indifferenza per le sorti del sito di Venezia ha la schiacciante maggioranza per rovesciare i pareri tecnici, restando come incognita solo la Bulgaria, che non ha siti in pericolo o potenzialmente in pericolo e neppure candidature da far sostenere.

Si può infine aggiungere che nella decisione peseranno anche la posizione del nostro paese, fra i principali contributori volontari, nonché la proposta del contributo di accesso e l’incredibile – nel senso etimologico del termine – Fondazione Venezia Capitale Mondiale della Sostenibilità.

Pertanto si può prevedere che il World Heritage Committe, a meno di un miracolo o di segrete contrapposizioni geopolitiche o di isolazionismi che forse rimarranno oscuri, ancora una volta non iscriverà Venice and its Lagoon, nella Danger List.

Quel che si può sperare come massimo risultato è l’invio di un’altra missione degli Advisory bodies. Se così fosse, cittadini e associazioni dovrebbero premere sul World Heritage Centre per richiedere come previsto dalle Operational Guidelines dell’UNESCO e dalla Convenzione di Faro una partecipazione diretta, libera, dei portatori di interessi e non irreggimentata manu militari dallo Stato e dal Comune (com’è avvenuto finora), con libero accesso dei commissari anche agli studi e pareri di enti e ricercatori qualificati e indipendenti.

Lidia Fersuoch

Consigliera Nazionale di Italia Nostra

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