Andrà in asta giudiziaria il prossimo 28 ottobre palazzo Di Napoli a Palermo.
L’edificio costituisce uno dei cantoni di piazza Villena, detta i Quattro Canti, la piazza seicentesca centro fisico e geometrico della città di Palermo creata con il taglio della via Maqueda (1602).
Nel XVI secolo era la casa di Giovanni della Rovere ed era allineato lungo la cortina settentrionale del Cassaro, l’asse viario principale della città, oggi via Vittorio Emanuele.
Nei primi anni del XVII secolo vi ebbe sede il banco pubblico della città, o Tavola nummularia. Nel 1617, la Tavola fu trasferita nel vicino Palazzo Pretorio, e il palazzo, a seguito dell’apertura di via Maqueda e della sistemazione di piazza Villena, fu completamente rinnovato nella sua configurazione architettonica. I lavori del Cantone addossato al palazzo, eseguiti dal Senato palermitano, autorità oggi equivalente all’amministrazione comunale, ebbero inizio nel 1619 e terminarono nel 1662.
Nel 1680 i governatori della Tavola concessero l’edificio a Domenico Montaperto, dei principi di Raffadali. Il palazzo fu ereditato dal genero, Silvestre Polizzi, marchese di Sorrentino.
Nel 1736 gran parte del palazzo era affittato a Don Carlo Napoli, o Di Napoli (1700-1758), giurista e magistrato di chiara fama, appartenente ad un ramo laterale della nobile famiglia dei principi di Resuttano. Il successore, Don Antonio Di Napoli, ingrandì a sue spese il palazzo acquistando numerosi immobili confinanti. Nella seconda metà del XVIII secolo, il palazzo subì lavori di abbellimento, come la sistemazione del lungo andito d’ingresso che, a partire dal portone posto su via Vittorio Emanuele, guida all’elegante scalone e conduce al piano nobile; la scala in marmo rosso di Trapani con nicchie alle pareti ornate da statue e un pregevole medaglione in marmo col busto di don Carlo di Napoli, eseguito da Ignazio Marabitti nel 1758 a spese del Senato palermitano e collocato inizialmente nel palazzo Pretorio (Palazzo delle Aquile). Don Carlo di Napoli era stato un celebre avvocato del Senato, difensore dei privilegi feudali; nel 1744 scrisse Concordia tra i diritti baronali e demaniali. Il libro, aperto, faceva bella mostra nel ritratto, tanto che nel 1778, quando si diffusero idee meno conservatrici, il ritratto di don Carlo di Napoli venne rimosso. Tempo dopo fu restituito alla famiglia e collocato nello scalone del palazzo del Cassaro, da dove è stato trafugato nel settembre del 2000. Ritrovato e riconsegnato alla proprietà, è stato donato alla Regione ed ora esposto al Museo regionale di materiali lapidei di Palazzo Ajutamicristo.
Nel 1860 durante le insurrezioni garibaldine il palazzo fu danneggiato perdendo i rivestimenti settecenteschi dei prospetti. Tra la fine del XIX secolo ed i primi del Novecento fu realizzato un nuovo prospetto su via Vittorio Emanuele con caratteristiche decorative classico-accademiche. Dal 1865, l’abbassamento del piano stradale consentì di sfruttare i pianoterra per le botteghe. Quelle su via Vittorio Emanuele hanno ospitato per qualche decennio un famoso caffè ristorante.
Nel 1827 l’ultimo marchese di Sorrentino, Francesco Polizzi vendette l’immobile al cav. Carlo Maria Di Napoli, figlio di Antonio, ed il palazzo assunse l’attuale denominazione Di Napoli. Dopo la morte dell’ultimo erede di casa Di Napoli, nel 1928, il palazzo rimase indiviso tra i tre figli.
Dal 1929 i locali del piano terra furono affittati come sede del magazzino La Rinascente e subito dopo la guerra, e per circa tre decenni, vi fu aperta la prima sede cittadina del grande magazzino UPIM, del gruppo La Rinascente, che in seguito ebbe in locazione oltre al piano terra il piano ammezzato, per la vendita, ed altri locali ai piani superiori per gli uffici ed i depositi. Il magazzino UPIM è rimasto in attività fino agli anni ’70 del XX secolo. I locali sono stati quindi nuovamente frazionati ed affittati come locali di vendita, ad esclusione di un’ampia superficie con due aperture su via Vittorio Emanuele dove, dal 1990 ha sede la ditta Pantaleone, sartoria ecclesiastica e articoli religiosi. Molte altre ditte commerciali hanno avuto sede all’interno del palazzo, tra questi, al piano ammezzato, il laboratorio fotografico Cilia. Ciò ha comportato la redistribuzione dei locali interni.
Fin qui le storiche origini di palazzo Di Napoli; i fatti più recenti rientrano però in ambiti diversi: da quello urbanistico a quello giudiziario e riguardano la tutela dei Beni comuni.
Il palazzo è parte integrante della più nota piazza di Palermo. Il muro sud-occidentale di forma convessa è, di fatto, uno dei Cantoni di piazza Villena, la costruzione barocca più conosciuta della città; come riportato dai giornali, il palazzo per la sua posizione è “uno dei più fotografati dai turisti”. Al balcone che circonda la grande statua di re Filippo IV (1662), inserita in una nicchia del cantonale, si accede dalle stanze del piano nobile, ma risulta in uso al palazzo, mentre la proprietà della facciata concava del Cantone è del Comune. Le finestre degli altri piani si affacciano sul Cantone. Non è azzardato il paragone con Fontana di Trevi a Roma, sia per la situazione del palazzo Conti di Poli rispetto alla Fontana sia per l’importanza, nel panorama monumentale di Roma, della celebre fontana.
Lasciato per qualche decennio pressoché in abbandono e senza manutenzione, ulteriormente danneggiato dal terremoto del 2002, nel 2003 palazzo Di Napoli è stato acquistato, insieme al limitrofo palazzo Costantino dalla società Immobiliare Quattro Canti s.r.l., costituita tra il mecenate Roberto Bilotti Ruggi D’Aragona e la società Framon dei Franza, imprenditori alberghieri di Messina, ad esclusione di alcuni locali del piano terra affacciati su via Vittorio Emanuele e del piano ammezzato di proprietà di altri privati.
Da allora palazzo Di Napoli ha seguito le sorti del limitrofo palazzo Costantino, a cui ormai risultava collegato.
L’11 dicembre 2003 è stata richiesta la concessione edilizia per i necessari lavori di ripristino con destinazione a hotel-museo di lusso, insieme al contiguo palazzo Costantino, palazzo sottoposto a tutela monumentale. L’unione dei due edifici, nelle intenzioni della proprietà, doveva costituire un unico percorso monumentale dove al recupero della dimora settecentesca, palazzo Costantino, già museo di se stesso, avrebbe fatto pendant il magnifico affaccio sul Cantone di palazzo Di Napoli. La nuova destinazione, sempre nelle intenzioni dei proprietari, avrebbe mantenuto l’elegante enfilade di saloni del piano nobile di palazzo Costantino dove sarebbero stati ripristinati decorazioni e arredi; per palazzo Di Napoli si prevedeva una sistemazione alberghiera e residenziale. Grazie alla concessione edilizia, rilasciata il 7 maggio 2007, con relativo cambio di destinazione d’uso, sono stati intrapresi lavori di restauro strutturale, durante i quali sono riemerse le tracce delle antiche strutture dei secoli XVII e XVIII. Già questo primo cambiamento di destinazione degli immobili aveva destato nell’opinione pubblica qualche preoccupazione, tuttavia per lungaggini burocratiche, intorno al 2010, dopo il rifacimento dei solai e la messa in sicurezza delle strutture, i lavori sono stati interrotti. Sono subentrati oneri finanziari di notevole entità e l’accordo con la società Framon è saltato.
Accantonato il progetto iniziale, negli ultimi anni, l’unico proprietario Roberto Bilotti Ruggi D’Aragona ha proposto la cessione del palazzo a gruppi imprenditoriali, sia nell’ambito commerciale che ad istituzioni cultuali. In entrambi i casi vicissitudini burocratiche hanno impedito il concretizzarsi delle iniziative. Un accordo con Zara, per esempio, è stato interrotto perché l’articolo 5 del Piano di programmazione urbanistica del settore commerciale per la città entro le mura (centro storico) vieta le medie e grandi strutture di vendita fatte salve quelle autorizzate entro il 31 dicembre 1999.
La stessa proposta per un uso gratuito pubblico-privato è stata fatta, in varie occasioni, alle amministrazioni locali, Comune e Regione, per la realizzazione, ad esempio, di un museo della città, senza ottenere risposte concrete. Roberto Bilotti ha trasformato gli spazi vuoti ed affascinanti dei palazzi di Napoli e Costantino in luoghi creativi e di esposizione per mostre ed eventi d’arte contemporanea di artisti emergenti. Il palazzo è stato aperto al pubblico in molte occasioni culturali, come Manifesta 12 e Le vie dei Tesori.
E mentre il proprietario ribadisce ancor oggi la sua volontà di cedere ad uso gratuito per 99 anni il palazzo per un uso pubblico, l’immobile, in totale circa tremila metri quadrati su quattro livelli, è stato messo all’asta, fissata il 28 ottobre p.v..
Il 22 ottobre il Comune di Palermo ha chiesto la sospensione del processo esecutivo di vendita perché comprende l’unità immobiliare di esclusiva proprietà del Comune di cui chiede la cancellazione della trascrizione del pignoramento.
Non v’è alcun dubbio circa la rilevanza storica ed il valore di posizione dell’immobile; tuttavia, malgrado l’impianto originario risalga al XVI secolo, l’edificio non figura fra quelli dichiarati di interesse storico. È stato ribadito, forse troppo tardi, il valore simbolico dell’edificio e la necessità di un intervento di maggiore tutela.
Si pongono ora delicate questioni giuridiche. Se da un lato i muri perimetrali fanno parte integrante dell’immobile, la balconata che ha come unici accessi le stanze del piano nobile e la facciata, su cui è costruito il Cantone Nord-occidentale di piazza Villena, può considerarsi esclusiva proprietà comunale perché costruito dal Senato palermitano nel XVII secolo. È quindi bene comune della città.
Più in generale, va riconsiderato quanto la città, e con essa le sue parti, palazzi, botteghe, cortili, appartenga ai cittadini. Quanto la storia di una città valga, rispetto al mero valore economico di un immobile. Quali azioni di tutela sono realmente in grado di arginare eventuali abusi, in un contesto così delicato e stratificato come il centro storico di una città millenaria. E infine che “uso” si vuole fare della città, intesa come insieme.
È certamente appetibile un palazzo posto nel cuore della città e per giunta senza vincoli se non quelli derivanti dal PPE, piano Particolareggiato esecutivo per la città entro le mura.
Seppure nella legittimità di un atto giudiziario, quello che verrà acquisito è pur sempre un pezzo di storia, un pezzo anzi un “canto” (angolo) di città. E se è ragionevole considerare che si tratta di un brano inalienabile del patrimonio cittadino, si teme ora che una nuova proprietà, proprio per le attuali condizioni dello stabile, possa stravolgerne l’uso. Un coro unanime di cittadini chiede a gran voce un uso pubblico, non necessariamente gratuito, ma a servizio della città, almeno per l’affaccio del piano nobile verso la piazza, nella quale, è bene ricordarlo, transita il maestoso carro di S. Rosalia durante il Festino. Inoltre, la proposta avanzata dal proprietario di trattare come unicum i due palazzi contigui, pur con le differenze del caso, vedrebbe coinvolto un comparto significativo della città e della sua storia urbanistica ed architettonica.
La vicenda è sottile ma nasconde un problema che sembrava accantonano. Quanto facciamo per i nostri Beni? Quanto teniamo al nostro patrimonio monumentale? Evidentemente piani regolatori, piani di recupero e di intervento non sono serviti ad arginare un degrado che qui, come in altri luoghi della città si fa più evidente. Non basta una facciata rimessa a nuovo, non basta a volte la cura.
Occorre, dove possibile, trovare la possibilità di far intervenire anche i privati nella gestione e valorizzazione dei Beni comuni, occorre sincretismo decisionale tra le amministrazione, occorre snellire gli iter burocratici per non perdere un patrimonio reso ormai obsoleto funzionalmente e spesso contestualmente.
Mi viene in mente una sola parola: tutela, averne cura, fattivamente oltre che affettivamente; da parte delle pubbliche amministrazioni; da parte di chi gestisce le nuove funzioni del patrimonio; da parte dei semplici cittadini che si sono accorti solo ora di una problematica che dura ormai da diciassette anni. Anni in cui l’immobile, e con esso il carico di memoria e di storia, si è degradato, svilendo man mano il valore e perdendo l’interesse dell’opinione pubblica.
Nel ribadire le intenzioni dell’attuale proprietario di cedere l’immobile per un uso pubblico, che porterebbe ad una fruizione collettiva di un angolo unico e prezioso della città, come esponente di Italia Nostra mi auguro che la paradossale vicenda si concluda con una concreta presa di coscienza da parti di tutti gli attori, dalla cittadinanza alle istituzioni, perché non si può rischiare di perdere interi comparti monumentali, qui come in altre situazioni, mi riferisco ai palazzi Geraci e Valdina le cui macerie fanno bella mostra di se nel salotto buono della città ed itinerario UNESCO.
Il tempo, le lungaggini burocratiche, le scadenze finanziarie e l’incuria possono danneggiare per sempre un patrimonio che, seppure privato, è comunque parte di un unicum, la città, Bene comune, sostanza e memoria da tramandare alle generazioni future.