Tavola rotonda “Il paesaggio toscano fra tutela, valorizzazione e innovazione”
Firenze, Palazzo Strozzi Sacrati, 30 novembre 2017
Esprimo il vivo compiacimento mio e di Italia Nostra (ma sono convinto anche delle altre associazioni di tutela) per questa bella realizzazione editoriale, il “Rapporto sullo stato delle politiche del paesaggio (Roma, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo-Osservatorio Nazionale per la Qualità del Paesaggio. 2017)”, prodotto veramente collegiale, assai bene riuscito, che costituisce uno strumento di grande rilievo per chiunque (amministratori, architetti urbanisti, altri professionisti e tecnici del territorio, studiosi, cittadini): una vera preziosa guida aggiornata e affidabile sulle leggi e normative, sui piani, sulle realtà territoriali delle singole regioni e del paese. Il lettore ne apprezza i contenuti (le realizzazioni esemplari o più o meno positive in materia, le criticità e i ritardi di attuazione) e ne apprezza anche i metodi e lo spirito critico e propositivo che sorreggono l’opera.
Alcuni aspetti problematici mi hanno particolarmente interessato, come studioso del territorio toscano e come operatore volontario nella più vecchia associazione italiana di tutela; e su questi aspetti intervengo con spirito costruttivo.
Anna Marson e Angela Barbanente, nel paragrafo La recente pianificazione paesaggistica: forma, processi, contenuti, si soffermano in primo luogo sull’importanza del “processo di costruzione delle conoscenze utili e pertinenti” per la redazione del piano paesaggistico, processo che – in molte regioni, ma non è il caso della felice eccezione toscana [Qui, sono state, infatti, attivate le diverse forme di conoscenza codificata e contestuale (da quella accademica a quella degli attori sociali locali)”, specialmente con riguardo alle “conoscenze esistenti”, ma anche con attivazione di approfondimenti di ricerca: con i risultati che sono stati poi messi a disposizione della comunità mediante i servizi di Web-GIS.] – “in molti casi non viene esplicitato”: a tutto danno della qualità di rappresentazione del territorio e dei “paesaggi oggetto dell’azione del piano”. E, in secondo luogo, l’importanza degli “spazi e percorsi di concertazione e partecipazione” attivati o da attivare (concertazione con i soggetti e le rappresentanze istituzionali, partecipazione con i cittadini e le loro associazioni dal basso).
Infatti, “trattando di paesaggio – anche con riferimento alla Convenzione Europea – progettare spazi e modi adeguati alla condivisione con la cittadinanza, intesa nel senso più ampio, appare un passaggio fondamentale”, come appunto è avvenuto in Toscana. E lungimirante risulta quanto si afferma di seguito: ossia che “l’approvazione del piano, per altro, non dovrebbe interrompere i processi di elaborazione tecnica e di mobilitazione sociale, ma dovrebbe marcare l’inizio del loro sviluppo con finalità diverse, volte al monitoraggio dell’attuazione [Specialmente, aggiungo io, con l’apertura alle associazioni di tutela dei recessi secretati delle Conferenze di Servizio, ove si approvano i piani attuativi non sempre in linea con il PIT, come esemplifica il Piano Attuativo “Le Fornaci” di Impruneta.], alla messa in opera di azioni e progetti integrati per la tutela, valorizzazione e riqualificazione del paesaggio, dotandoli di adeguate risorse umane e finanziarie”.
Con riferimento alla situazione generale italiana, infatti, le stesse Marson e Barbanente non mancano di sottolineare “nodi critici nel governo del territorio e del paesaggio”: criticità riguardanti “l’attuazione” dei nuovi piani paesaggistici e delle nuove leggi urbanistiche. Soprattutto perché “la pianificazione locale non è sempre coerente con gli obiettivi di tutela paesaggistica alla base della pianificazione regionale”.
Nel paragrafo Adeguamento e conformazione dei piani urbanistici e territoriali ai piani paesaggistici, Roberto Banchini, Angela Barbanente, Anna Marson e Lionella Scazzosi evidenziano, anche per la Toscana, svariate “problematiche. Emerge innanzi tutto il rischio che l’attività di adeguamento/conformazione si risolva in mero adempimento burocratico, essenzialmente limitato alla verifica di conformità dei perimetri dei beni e degli ulteriori contesti paesaggistici e delle relative prescrizioni. Con la conseguenza, da un lato, di ignorare i contenuti progettuali dei piani e gli strumenti di partecipazione e di governance previsti per attivare società, istituzioni, portatori di interesse in programmi, progetti, azioni volti a tradurre in pratica gli obiettivi di qualità dei piani paesaggistici; dall’altro, di interpretare le invarianti strutturali quali oggetti, magari corrispondenti ai piani paesaggistici, anziché come regole che, definendo l’identità di lunga durata dei luoghi, devono modificare in senso più consapevole e informato i processi di trasformazione del territorio-paesaggio alle più diverse scale”.
Nel paragrafo La lettura paesaggistica degli strumenti urbanistici comunali, Anna Di Bene affronta il delicato problema della conformazione al PIT degli strumenti urbanistici comunali in Toscana, specie riguardo ai Piani Attuativi o comunque denominati. Si riconosce esistere non poche criticità riguardanti: le “Varianti normative che vengono presentate senza alcuna descrizione cartografica di riferimento. Altri aspetti critici emergono dalla mancanza di coerenza metodologica per una lettura e regolamentazione degli aspetti paesaggistici nei livelli di pianificazione urbanistica e territoriale: ciò si aggiunge all’insufficiente materiale documentario che viene prodotto dai Comuni per le valutazioni paesaggistiche degli interventi previsti”. E ancora: dalle verifiche effettuate sulle istruttorie di adeguamento e/o conformità al PIT degli strumenti di pianificazione urbanistica, “emerge una carenza di documentazione (descrittiva, cartografica, fotografica) inerente una serie di indagini importanti per la conoscenza paesaggistica dei luoghi al fine di valutare gli effetti delle trasformazioni urbanistiche proposte e di verificarne la coerenza con la Disciplina del PIT”. E ancora di più: “Per le previsioni di nuove espansioni, spesso non viene affrontato il percorso metodologico indicato dal PIT per giungere alla perimetrazione del territorio urbanizzato”.
La carenza metodologica e documentaria finisce con il compromettere spesso la “effettiva individuazione del confine tra paesaggi urbanizzati e paesaggi agrari, con il rischio di continuare a utilizzare il territorio agricolo quale territorio per l’espansione urbana [Come avvenuto per il contestato piano di Lucca, con l’urbanizzazione delle aree agricole della Piana.].
Manca inoltre l’individuazione delle aree da dedicare alle opere a verde, da determinare, come estensione e caratteristiche, non solo in base a meri standard urbanistici, ma come vere e proprie ‘architetture vegetali’ in coerenza con i caratteri del contesto.
La mancanza, negli atti di progettazione urbanistica, di una lettura paesaggistica dei luoghi e delle previsioni di sviluppo del territorio non permette di individuare, né, tanto meno, di dare indicazioni di salvaguardia sugli elementi fondamentali per la tutela del paesaggio, coerentemente con quanto contenuto nelle Schede della Disciplina del PIT.
Dunque, in conclusione, scrive Di Bene che vi è la necessità che il processo di pianificazione e progettazione territoriale, nel suo primo livello comunale, assuma compiutamente come riferimento le conoscenze e le indicazioni operative dello strumento pianificatorio regionale, sviluppandole e scendendo nel dettaglio dei caratteri del paesaggio e delle prescrizioni per gli ambiti territoriali oggetto di trasformazioni”.
Emerge, dunque, oggi, alla scala nazionale e anche alla scala regionale toscana, un quadro in chiaroscuro, con luci e anche con ombre: ombre che devono essere il più presto possibile dissolte. A maggior ragione, allargando sempre di più non solo il monitoraggio regionale-statale ma anche la partecipazione dei cittadini, ovvero aprendo i processi di verifica degli strumenti urbanistici comunali e le conferenze di co-pianificazione al contributo attivo delle associazioni di tutela: che – come bene rileva e sottolinea il documentato Capitolo 5 del Rapporto, intitolato La partecipazione dei cittadini e delle associazioni di Costanza Pratesi, Antonello Alici, Gaetano Benedetto e Fausto Ferruzza – rappresentano una rete assai diffusa di cittadinanza attiva e consapevole, degna della massima fiducia, che è anch’essa componente fondamentale dello Stato, e in tale veste deve essere vista e considerata dalle Istituzioni regionali e locali; e ciò, al di là delle ricorrenti contrapposizioni su tematiche e problematiche particolari relative a scelte urbanistiche in varia misura impattanti sul patrimonio paesistico-ambientale-culturale e sulla qualità della vita.
Le associazioni di tutela – a partire dalle quattro maggiori (FAI, Italia Nostra, Legambiente e WWF) che hanno contribuito alla redazione del Rapporto – rappresentano “una ‘piccola-grande’ moltitudine di persone che organizzano eventi e incontri per diffondere la conoscenza del paesaggio, del patrimonio naturale e culturale, per sensibilizzare ed educare sulle criticità e sulle problematiche di natura ambientale e paesaggistica, che promuovono una tutela attiva dei territori (tramite presidio, testimonianza, esperienza, didattica, studio e ricerca, advocacy e anche attraverso ricorsi giudiziari quando non vi sono altre strade utili di azioni) e molto altro ancora”. Una ‘piccola-grande’ moltitudine di cittadini che si attiva volontariamente a vantaggio della conservazione del patrimonio e dello sviluppo sostenibile del territorio, che, per queste ragioni, deve essere quindi guardata e considerata con fiducia e con rispetto dalle Istituzioni, a qualsiasi livello esse appartengano.
Leonardo Rombai (Italia Nostra Firenze)
Paesaggio Radda in Chianti