Italia Nostra

Data: 30 Marzo 2021

Teramo: un tavolo con la comunità per decidere del futuro dei tre reperti archeologici scomparsi e recuperati

Dei tre reperti ritrovati il più importante, per una storia da completare sulle stele sud-picene, è il cippo di Sant’Omero, rinvenuta nel 1843 da Giovanni Spinozzi, a circa un chilometro ad est della Masseria Branella, nei pressi di una tomba in un colle sovrastante la piana. Si tratta di un cippo in arenaria, alto cm. 105, largo nel punto massimo cm. 57 e spesso cm. 22, rastremato verso l’alto, con base leggermente convessa e con iscrizione incisa, composta da cinque righe ad andamento bustrofedico. Databile fra la metà del VI-metà V sec. a.C. il testo, in base alle attuali conoscenze, è il seguente: petroh pùpun [———————-] r e suhuh suaips ehuelì  de[—————————-] nu puùde pepie-

Delle 23 iscrizioni sudpicene in realtà, oltre a forme certe, vi è un gran numero di casi in cui il riconoscimento e l’interpretazione sono ipotetiche perché decontestualizzate e dunque di più difficile interpretazione. Nella nostra il pupun sembra indicare un individuo con funzione pubblica a cui è dedicata la tomba.

Per quanto concerne la statua del togato, è, come si sa, proveniente dal monumento sepolcrale omonimo, lungo la via dei Sepolcri di Ponte Messato (contrada La Cona), dedicato a Sex. Histimennius,, rinvenuta nel 1961 durante una campagna di scavi diretta da A. La Regina. Riportata nella pubblicazione di  R. Cerulli e  in quella di W. Mazzitti  e indicata come irreperibile,  la statua, acefala e rotta alle spalle e ai piedi, alta m. 1,50, indossa la toga e mostra il braccio destro disteso lungo il fianco e il sinistro che regge il sinus. R. Di Cesare la riferisce, in un “illuminante” intervento nel Catalogo del Museo Archeologico “F. Savini” di Teramo, ad età augusteo-tiberiana, sulla cui datazione sono assolutamente d’accordo, per la tipologia della toga indossata e per la resa,  piatta e lineare assieme alle pieghe rappresentate con rigidità, opera di  artisti locali.

Più problematica la vicenda dell’iscrizione romana la cui trascrizione è: D(is M(anibus s(acrum)/ C. Petisedio Successo, Alpisia Caprio/la  marito/ c(um) q(uo) an(nis) XXX v(ixit) m()ensibus V/b(ene) m(erenti) et Petisedi/ Capriolus et/Sucessus fili/f(ecerunt), CIL, IX, 5112 giacché, riportata nel volume di W. Mazzitti e localizzata nell’Antiquarium del Comune di Teramo (l’androne dell’ex Comune di Teramo a Piazza Orsini), non si capisce come sia finita nel luogo del rinvenimento, presso Madonna delle Grazie.

Rispetto al ritrovamento mi corre l’obbligo in qualità di archeologa (con specializzazione europea post-lauream), come ex Direttore del Polo Museale della Città di Teramo per più di trenta anni e, attualmente, Presidente della Sezione di Teramo di Italia Nostra, di dare una visione meno sensazionalistica e più equilibrata dell’accaduto nonostante, ai tempi della perdita dei reperti rinvenuti, io fossi ben lontana dall’aver assunto il mio incarico presso l’allora Museo Civico. Voglio ricordare che, dopo qualche anno dalla mia assunzione per regolare concorso, ho disposto che i reperti sparsi nella Villa Comunale, nel sottotetto del Museo Civico e altrove (come i busti di Settimio Severo e Fausta Antonina, ricoverati in uno scantinato dell’ex fabbrica Villeroy e Boch non so quando e in quale circostanza, ma certo negli anni addietro alla mia assunzione) confluissero nell’erigendo Museo Archeologico. Ma questa è un’altra storia, forse da dimenticare soprattutto da parte di chi ne abbia contezza.

Il ritrovamento di reperti, che avrebbero dovuto essere in mostra da trenta o quarant’anni e che invece hanno vissuto dimenticati e immersi in quella terra dalla quale archeologi solleciti o appassionati cultori della materia l’avevano sottratto, ci induce forse alla ricerca del colpevole? Colpa degli amministratori del tempo? Dei direttori “onorari” che avrebbero dovuto custodire e “ordinare” i reperti, anche attraverso il loro recupero e la loro giusta collocazione, per una adeguata valorizzazione degli stessi? 

Una ricerca vana e forse persino fuori luogo perché questo è un momento da registrare come sconfitta e non come esaltante scoperta per l’intera comunità. Non so ma, mi chiedo, dove era la Soprintendenza che, specie in quegli anni, aveva l’obbligo della tutela anche, e soprattutto, catalogando i materiali archeologici depositati presso l’allora Museo Civico? Non so, e forse non mi interessa più di tanto, perché credo che la “perdita” della memoria parta sempre dall’incompetenza e dalla negligenza di chi dirige i “luoghi della Cultura” che dovrebbe custodire e ordinare gli stessi con professionalità e profonda conoscenza, oltre che con passione, per quello che è chiamato a fare. Penso soprattutto che in questo specifico settore la delega all’Assessore alla Cultura e al critico d’arte di turno, che poco conosce della nostra realtà e del nostro territorio, piuttosto che allo scrittore di fama, che comunque appartiene ad altri “paesaggi culturali”, non serva e non contribuisca alla crescita di una comunità. Così oggi, dinanzi al fortuito ritrovamento di reperti, ci si preoccupa di enfatizzarne l’importanza, sostenendo che si si sia dinanzi ad un ritrovamento di incredibile valore storico e archeologico, mentre si tratta solo di un importante risarcimento fatto alla ricerca. Una ricerca monca, sino a questo momento, per l’impossibilità di osservare e continuare a studiare un’iscrizione (quella appunto proveniente da Sant’Omero), annoverata fra le ventitré iscrizioni sudpicene. Una ricerca monca per non essere in grado di ampliare la narrazione di una storia, la nostra, leggendo l’epigrafe sepolcrale dedicata a Caio Petisedio. Un’iscrizione, finita non si sa come dall’Antiquarium comunale in piena terra, nella quale la moglie dedica al marito un tenero ricordo per essergli vissuto accanto per trentatré anni e cinque mesi. Una ricerca monca per l’impossibilità di esporre la statua di Histimennius che avrebbe avuto spazio assai dignitoso nel Museo Archeologico, organizzato e recuperato con tanta fatica e tanto lavoro scientifico per accogliere cittadini e turisti, ma ormai inagibile dal 2016. Perché, come è stato detto da voci più autorevoli di me, non serve visitare centri storici, uffici e postazioni digitali, percorrere vie e visitare piazze per cogliere l’identità e la vitalità di un’intera comunità. Basta visitarne i “luoghi della Cultura”. E non hanno nessun senso i sensazionalismi e le notizie scambiate per “scoop” dell’inatteso, strombazzate da giornali e riproposte sui “social”. Serve amore per quello che questa comunità è stata; serve il racconto dei suoi antenati, con il loro vissuto e le loro narrazioni; servono i “luoghi della Cultura” frequentando i quali si apprende, da piccolissimi, da dove veniamo e dove vogliamo andare. Perché una città senza “memoria”, non è pronta a mettersi in discussione, attingendo alle voci della propria appartenenza; prona solo all’ascolto dei “diktat” di Soprintendenze che dispongono sovente solo della forza del “veto” o del “fare” in prima persona, nel caso di finanziamenti, senza ascoltare la grammatica e la sintassi di una democrazia partecipata. Perché una comunità che non combatte perché i propri “paesaggi culturali”, intesi come beni espressi nei secoli dai loro antenati, siano difesi e valorizzati e entrino a far parte del proprio vissuto quotidiano; perché  cittadini che non si ribellino alla chiusura, ormai quinquennale, di un Museo, cuore del proprio sistema di luoghi della Cultura,  sono il prodotto evidente di una “perdita della memoria”  che porta a negare il proprio passato e, privo di radici fondanti, non sarà capace  di progettare il proprio futuro. 

Perché Teramo necessita di un risarcimento complessivo degli spazi irrisolti, in margine alle numerose demolizioni, sistemando il comparto nel pieno rispetto delle nostre notevoli emergenze archeologiche senza che esse diventino “aree sacre”, mitizzate dal fluire del tempo, respingenti con le loro ingombranti coperture, i loro cancelli, i loro “ostacoli”, nel percorso di una comunità che sente quegli spazi ostili, lontani, immersi in una “divina indifferenza”.

Penso invece ad un futuro roseo per il confronto delle intelligenze di questa città e di altre realtà. Alla importanza di un tavolo che coinvolga la comunità e la abitui ad un confronto di idee, dopo aver fatto conoscere con esaustiva efficacia i termini del problema e le sue possibili soluzioni. Penso alla possibilità di realizzare visioni reali e virtuali, suggerendo adesioni esperienziali e coinvolgenti da parte della comunità per un turismo culturale “lento” e “sostenibile”. Penso alla possibilità di offrire a chiunque lo desideri, livelli di esplorazione e di educazione attraverso il divertimento, diversificati per segmenti di visitatori, giacché credo che solo in questo modo le aree archeologiche riescano ad affascinare tutti coloro i quali sono persuasi che il passato e l’esperienza si debbano e si possano cancellare.

E questo sì, credo, che al di là di altre specifiche competenze, sia possibile soprattutto attraverso la mediazione dell’Archeologia che “custodisce” il passato, per quel che è possibile, ma per immergerlo in un vissuto che lo renda sempre attuale. Al pari dei migliaia di nomi, riportati a lettere indelebili sull’ampissimo bordo della vasca che troneggia nell’occhio “spalancato”, vuoto incolmabile, della fondazione delle torri gemelle abbattute. Qui, a brevissima distanza, un cartello avverte con una frase, assai densa di emozione e di senso della memoria, “Vietato non toccare”. Così New York onora le vittime di un assurdo attentato perché, toccando e sfiorando quei nomi impressi sulla pietra, si ricordino per sempre, anche tra migliaia di anni, le vite di individui, immaginandone storie, episodi e racconti.

Questo e solo questo rappresenta per noi teramani il ritrovamento dei reperti occultati: tessere di una storia, tornate alla luce casualmente, Frammenti di una civiltà sepolta dall’oblio dei secoli, che si uniscono al coro di quelle “voci” in grado di restituirci segni tangibili del nostro passato.

Perché ogni nome inciso sull’epidermide di queste pietre è una storia, frammento di una lontana realtà che non si rassegna all’oblio. Ogni impaginato finisce per offrire una suggestione, per sollecitare un’idea, o meglio un ipotetico vissuto, adattato alla propria sensibilità…

Perché tante altre storie individuali troverebbero qui un serbatoio di uomini e donne sospese, con le loro vicende, nella luce che piove sulle poche lettere di una non cercata notorietà, dovuta al lavoro di storici e archeologi…

Perché si narrano, linea dopo linea, vicende di personaggi; storie di vita e episodi di morte, consegnati all’immortalità di una lapide o di una statua che la terra ha conservato per decenni e il caso ha restituito alla comunità tutta… 

Paola Di Felice

Presidente Italia Nostra – Sez. Teramo

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