Non è una bella aria quella che tira a Tarsia dai primi di maggio. Da quando cioè è entrato in funzione il “museo virtuale” di Ferramonti (MuviF), che sembra riproporre, più chiaramente di prima, i pesanti interrogativi pendenti da tempo sul museo “reale” ,
il cosiddetto Museo internazionale della Memoria, e sulla gestione approssimata della memoria dei resti di quello che è stato il più grande campo d’internamento italiano per ebrei della Seconda guerra mondiale.
Di certo non poteva immaginarsi un esordio peggiore per un museo inneggiante alla memoria: una struttura che dovrebbe fare dell’esattezza storica e della correttezza scientifica le proprie bandiere, viene additata, sul nascere, da storici e giornalisti di grande levatura come luogo di falsificazioni e scorrettezze. Difatti, Mario Rende e Anna Pizzuti, due tra i più importanti studiosi italiani del campo di Ferramonti, hanno subito accusato il museo (come tutti possono leggere sulla pagina Facebook del MuviF) di inadeguatezze scientifiche e comportamenti che appaiono gravissimi sia sotto il profilo culturale che penale: falsificazioni di immagini e di dati storici; ruberie del lavoro altrui; sbandieramento di prestigiosi “partenariati” (addirittura l’Imperial World Museum di Londra!), di fatto inesistenti.