Italia Nostra

Data: 21 Novembre 2022

La morte della bellezza

 
 
 
 
 
 
 
 
Si ripropone qui di seguito un articolo scritto da Giovanna Mozzillo nel 2018 e pubblicato dal Corriere del Mezzogiorno sulla bellezza della città di Napoli nei primi anni del secolo scorso fino agli anni ’50-’60, quell’estetica che la scrittrice e saggista, nonchè socia onoraria della sezione di Italia Nostra di Napoli, ha saputo trasfondere nei suoi racconti e romanzi, primo tra tutti “La Signorina e l’Amore”.
 
 
Mio Dio, ma com’è possibile che, rispondendo alle domande di Mirella Armiero (l’intervista è stata pubblicata sabato scorso sul Corriere del Mezzogiorno), Fuksas ritenga positivi per l’estetica partenopea gli anni cinquanta, sessanta e settanta? Ma nessuno lo ha informato che proprio allora la speculazione, sicura dell’impunità garantita dall’indifferenza (o dalla complicità) della cosiddetta “società civile”, ha scempiato per sempre una bellezza che durava da millenni? Nessuno gli ha detto che in quegli anni non solo le colline sono state cementificate con minuziosa spietatezza, stravolgendo un panorama sublime (e infatti riprodotto in mille dipinti), ma che in tutta la città, in nome di una avidità di guadagno refrattaria a qualsiasi freno o pudore, il verde è stato estirpato e spazzato via? Nessuno gli ha spiegato che quelli son anni da esecrare senza mezzi termini: perché fu allora che i giardini di Monte Echia scomparvero per dar spazio a edifici banali o incongrui (come il palazzone della SIP, che poi è divenuto università, ma non per questo ha smesso di profanare la sagoma altera della rupe nelle cui viscere un tempo si venerava Mitra). E fu allora che le deliziose Rampe Caprioli (dalle quali, tra vigne, filari di fichi e alitar di farfalle, Monte di Dio era congiunta a piazza de’ Martiri) vennero fagocitate dai grevi condomini di via Cappella Vecchia. E sempre allora stessa sorte toccò a tanti giardini di via Crispi, mentre per intero e nel modo più mortificante venne urbanizzata la fiorente campagna che dolcemente da Corso Vittorio Emanuele digradava verso il mare. Sicché alle “Quattro stagioni” smisero di venir consumate merende, nelle notti di Santa Maria della Neve non brillarono più le lucciole, e avanti ai fondaci di San Filippo non riposarono più le barche tirate a secco.
 
Insomma quegli anni ci hanno regalato una selva di condomini, di balconi che ossessivamente fissano altri balconi come in un perverso gioco di specchi, di serrande che fronteggiano altre serrande. E sempre allora è stata aggredita anche Posillipo, capisce, signor Fuksas, Posillipo che avrebbe dovuto costituire un territorio religiosamente protetto in cui entrare in punta di piedi per non turbare il sonno delle ninfe: soprattutto il versante a monte e la zona del Casale furono sottoposti a una metamorfosi che non deve esser spacciata per modernizzazione, perché i capolavori non si modernizzano, no, i capolavori – che siano opera dell’uomo o della natura – si salvaguardano, e così come ci si astiene dal manomettere il Colosseo o la Cappella Sistina, allo stesso modo intoccabile e sacra avrebbe dovuto venir ritenuta Posillipo.
 
Ecco, signor Fuksas, le confesso: mi ha lasciato allibita il fatto che lei si sia soffermato sulle “belle” architetture che a suo dire son state create tra il cinquanta e il settanta, mentre a me sembra (ma “sembrare” è espressione eufemistica, perché ne son sicura e mi ci giocherei la testa) che da rilevare con sdegno e raccapriccio fosse invece come in quel periodo sul nostro suolo abbiano preso corpo veri e propri mostri. Ne cito qualcuno, ma ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta. A cominciare dalla “muraglia cinese” di via Kagoshima, che è impossibile guardare senza provare un soprassalto d’orrore. Per passare al mastodontico edificio di piazza Mercato la cui costruzione avrà fatto rivoltare nella tomba sia Corradino che i martiri del 99 (ma come?, avranno esclamato sconvolti, non c’è un po’ di rispetto per il luogo dove abbiamo affrontato il patibolo?). E poi il colosso da incubo che, all’uscita vomerese della tangenziale, al forestiero in arrivo dà l’impressione di stare sbarcando non a Napoli, ma su Marte o su un altro pianeta alieno. E, ancora, gli anonimi edifici che, elevati al posto di quelli sette-ottocenteschi colpiti dalle bombe, hanno resa insipida la Riviera di Chiaia che era stata una delle più ammalianti strade d’Europa (mentre, come si è fatto altrove, avrebbero potuto venir ricostruiti nella forma originaria).
 
In conclusione, gentile signor Fuksas, lei forse non ha un’età che le consenta di ricordarsi Napoli “cumm’era”, e allora, mi stia a sentire, faccia una cosa, si guardi le immagini (gouaches, incisioni, foto) che mostrano l’aspetto della città prima di quei decenni sciagurati, dopo di che si passi una mano sulla fronte e faccia ammenda per non aver speso una parola sul “sacco” a cui tra il cinquanta e il settanta Partenope ha accettato di sottostare con inerte e cinica apatia: un delitto che ha cancellato la sua identità e la sua unicità e che non potrà essere risarcito da nessuna “metropolitana d’arte” (a parte che noi napoletani forse preferiremmo metropolitane meno artistiche, ma che non avessero i tempi di attesa più lunghi del continente).
 
Giovanna Mozzillo
 
 
 
per la foto in evidenza: Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1871540
 
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