Pubblichiamo l’articolo scritto dalla prof.ssa Di Meo sull’incontro organizzato dalla sezione di Campobasso unitamente alle Soprintendenze BAP e BSAE del Molise, tenutosi il 22 aprile scorso, inserito nella settimana della Cultura
La convergenza d’intenti e di finalità fra la sezione di Italia Nostra di Campobasso e le Soprintendenze per i BAP e BSAE del Molise, hanno dato vita, il giorno 22 Aprile 2012, ad un ampio ed articolato incontro inserito nella XIV settimana della Cultura. Ai numerosi presenti è stato proposto non solo un fedele e documentato quadro storico-culturale ed una meticolosa visita guidata con giovani esperti, ma anche una appassionata e panoramica finestra sui “Paesaggi sensibili” sia di superficie che ipogei, da riscoprire e valorizzare. Chiaro è risultato il messaggio sulla necessità di una mobilitazione non solo finanziaria, ma emozionale verso i segni del passato ed i problemi del presente e di una condivisione più ampia, non riserva di specialistiche minoranze. Fattore fondamentale nella storia di Gambatesa, piccolo paese in provincia di CB, è stata la sua posizione geografica nella Valle del Fortore: cerniera tra il Tavoliere delle Puglie e la Campania, nodo idrografico ed anche stradale per la presenza del Tratturo Castel di Sangro-Lucera.
Nel passato, Gambatesa fu insediamento rupestre, fu Castrum sannita per il monitoraggio della valle e delle greggi, fu torre di avvistamento nel medioevo. Però, il momento storico di maggiore fortuna della comunità di Gambatesa è dovuto alla presenza, sulla scena della sua storia, della famiglia Di Capua, che acquistò il Castello nel 1484 e lo tenne per quasi un secolo, fino al 1583; in particolare, si deve a Vincenzo Di Capua, nella prima metà del 500, al suo successo, al suo ruolo politico ed al suo potere nell’ambito del Regno di Napoli. Grazie ai suoi contatti con le signorie italiane oltre il Molise, egli diventò un mecenate in un angolo interno ed appartato del Regno di Napoli, portandovi sprazzi della vita culturale e della elaborazione di correnti artistiche da ambienti più ricchi e più colti. Pur non essendo il Castello di Gambatesa residenza ufficiale, Vincenzo Di Capua incaricò il pittore Donato De Cumbertino di affrescarne il piano nobile con un ciclo iconografico, che esaltasse la grandezza e le virtù del Duca, secondo i dettami della moda in vigore nelle corti di Napoli e di Roma, dove certamente il De Cumbertino aveva conosciuto e frequentato artisti importanti come Giorgio Vasari e perciò in grado di riproporne, in maniera ora più ora meno originale e scoperta, i canoni nel ciclo celebrativo molisano. Il paesaggio trasferito sui muri delle varie sale non poteva che rispondere ai canoni classici di riferimento, perciò è di tipo essenzialmente archeologico. Le vedute delle campagne romane, con i suoi ponti ed i suoi fiumi sono vezzi, citazioni, suggestioni colte, aderenti ai dettami di scuola. Solo la sala del Canneto propone allo sguardo del visitatore un richiamo al paesaggio reale, quello visibile oltre le finestre del Castello, con quelle canne alte e rigogliose che certamente crescevano lungo le rive del Fortore e del Tappino. L’affresco, per l’essenzialità dell’espressione, fa pensare all’esecuzione di un aiutante del maestro Donato De Cumbertino. Alte canne costituiscono la trama della sala e tra un fusto arboreo e l’altro fanno capolino squarci naturalistici, già visti nelle altre sale. Non manca una virtù da celebrare: è una piccola tartaruga, simbolo del tempo che passa lento, della pudicizia, della modestia, ma sembra relegata, qui, ad un ruolo secondario, come se tali virtù fossero figlie di un dio minore!
Mentre guardavo le rappresentazioni, mi piaceva immaginare che l’artista in quella piccola sala cedesse al richiamo della realtà oltre i muri del Castello ed oltre le ideologie del committente, sintonizzandosi sul mondo di pastori, di greggi e di artigiani che trasformavano le canne in ceste, in fuscelle per i formaggi, in stuoie, scambiate, poi, con altri prodotti nelle 5 taverne lungo il tratturo, per il cui transito il feudatario aveva fissato delle tariffe per ogni capo di bestiame e da cui derivava la solida economia del suo feudo. Ancora oggi il fondovalle è attraversato da una strada, tangente in più punti con l’antico tratturo; ai suoi lati le colline sono in gran parte erose dalle frane e dalle acque e divorate da una “riforestazione” impietosa e sui cucuzzoli si trovano comunità sempre più asfittiche. Qui, come altrove in Italia, il territorio agricolo diminuisce a ritmi incalzanti e tale abbandono scardina le opere di drenaggio che i contadini avevano una volta costruito; oggi si cerca un argine di cemento. È auspicabile pensare, invece, ad interventi di restauro paesaggistico con recupero dei terrazzamenti ed a politiche agricole attente alla conoscenza delle criticità di questa antica valle; qui, il tratturo è presenza, è soprattutto connotazione antropologica e territoriale, come ha ben messo in evidenza Massimo Bottini, consigliere nazionale di Italia Nostra nel suo intervento, ma è anche assenza, poiché la cultura contadina è troppo debole, così come la sensibilità ecologista, di fronte all’arroganza della cultura urbana e tecnologica dominante.