Italia Nostra

Data: 25 Maggio 2020

Mutazioni. Michele Campisi

“Mutazioni”

di Michele Campisi

 

 

Coloro che ricoprono cariche pubbliche devono rispettare le leggi, i giudici devono interpretarle. Insomma, proprio per quanto detto, dobbiamo essere schiavi della legge affinché possiamo essere liberi

Cic., Pro Cluentio, 146

 

            Un forte clima di “cambiamento” ha diffusamente e generalmente attraversato negli ultimi decenni le nostre società. Gran parte di questa innovazione ha riguardato il sistema degli scambi e la dinamica delle relazioni tra pubblico e privato. Nuovi meccanismi (riguardanti economia, finanza, sociale in genere) hanno comportato anche nei molteplici livelli una serie di modifiche comportamentali. Il caso italiano si è dimostrato tuttavia tra quelli meno permeabili a certune trasformazioni per i ristagni di tradizione che continuano a definire alcuni caratteri dei rapporti. Si veda come esempio la scarsa diffusione dell’attività immateriale come lo smart working solo recentemente assurto alle cronache. Inutilmente se ne era parlato come occasione di un’ampia estensione nel campo dei servizi, delle pratiche giuridiche, dell’informazione fino alla politica; processi assai parzialmente realizzati. Gli ultimi anni sono invece riusciti a cambiare radicalmente la Comunicazione, soprattutto con la comparsa ed il dilagare dei “social”, che ne hanno fatto un campo di importanza capitale. Quest’ultimo aspetto ha definitivamente azzerato le dissociazioni tra pubblico e privato.  Accorciato lo spazio di separazione, secondo quanto già preconizzato dallo stesso Habermas, fino all’annullamento di molte distinzioni e la conclusione di quel processo di sindrome semantica tra “pubblico” e “sfera pubblica”. L’attività economica privata che opera ormai fuori dai confini dell’ambito “familiare”, ha raggiunto una mansione d’interesse generale fino ad occupare e determinare “la fisionomia dello spazio pubblico” controllando parti importanti della “società civile”. Questa infine si è sempre più politicamente connotata come lo spazio di “rappresentazione” delle attività economiche private.

Molta parte di queste attività, in vari settori di investimento ed in concomitanza dei periodi di ristagno finanziario, si sono orientate sempre più verso la conquista delle Risorse e dei Beni della “collettività”. Il pubblico patrimonio, spettante per Costituzione al controllo della Repubblica, spogliato da ogni valore significante si è reso disponibile all’agire ed al produrre. In molti casi si sono trasferiti interessi del Privato dentro la sfera pubblica fino ad annullarne le stesse prerogative ordinative. In altri casi, con l’uso della mediazione politica, si è cercato di legittimare principi secondo cui l’appartenenza a quella sfera di interessi potesse giustificare il ritorno alla collettività degli oneri, dei disagi e dei conseguenti costi generati dalle attività. La “globalità” ha infine scardinato i tradizionali meccanismi dello Statuto Democratico portando ad una radicale contrapposizione le prerogative tra ordinamento dello Stato e Società (questa intesa come sfera privata in genere). Certo è che tutto questo patrimonio non ha lo stesso identico e indistinto valore. In molti casi, il vecchio sistema delle proprietà pubbliche demaniali, ha ad esempio favorito l’oscuramento di qualche pezzo anche strategicamente significativo per le città, a beneficio di una gestione ambigua e indecifrabile. Molti dei compendi edilizi senza alcun valore storico e culturale continuano silenziosamente a rimanere fuori dalle pubbliche risorse. Atteggiamenti strumentali hanno finito col prevalere condizionando questo grosso campo di interesse che invece andrebbe affrontato con uno spirito superiore. Parti importanti dell’organizzazione statale, ad esempio le Forze Armate, posseggono ancora – forse senza saperlo – ampi ed importanti immobili, lasciati talvolta ad un incomprensibile abbandono. Esempio può forse essere la vastissima area nel cuore dell’antico Laterano che ha questo genere di servitù. Un pezzo importantissimo per la città, di cui non ne conosciamo (noi abitanti) il suo uso. Non si può credere che esso sia strategicamente determinante alla difesa dello Stato meno di quello che può certamente rappresentare per la risoluzione dei molti problemi della città. Un’area vasta, chiusa, oscurata come un grande buco nero. Che tutte queste proprietà siano prima o dopo destinate a rientrare in un piano di risorsa è scritto però nel destino. È bene dunque che si predispongano tutti i criteri di garanzia: là dove esistono quelli del Patrimonio Culturale, quelli di una effettiva utilità collettiva e quelli di una loro partecipazione al rinnovamento sostenibile della città.

Pochissime delle analisi formulate negli ultimi mesi hanno saputo percepire come la crisi sanitaria abbia messo in evidenza il conflitto e la estrema diversità dei modelli presenti nel mondo globalizzato: da un lato le nuove società leader anglosassoni votate alla ridimensione dei compiti dello Stato come “Regolatore” dei Diritti; dall’altro le nazioni europee continentali e mediterranee che sostengono nelle rappresentanze statali le garanzie della sfera collettiva. Il disordine generato ha posto in risalto le disfunzioni dei due sistemi quando si degenerano gli elementari valori: quelli etici a partire dal riconoscimento della stessa “umanità”, nella tentazione di un ripristino oscurantista di un nuovo Potere Sociale che si sostanzia nelle vesti dello Stato; quelli di uno Stato che nelle funzioni regolatrici pervade tutti i campi del sociale con un complesso normativo strumentale all’artificio della sua struttura (Apparato).

                Queste brevi e generali premesse sono a mio giudizio indispensabili per comprendere la più vicina attualità e valgono per poter leggere e interpretare le diverse dinamiche della Città contemporanea. La sua palese crisi mi pare determinata dal farsi sempre più luogo di “conflitto” anziché di “armonia”, riproponendo quella vecchia contraddizione di un meccanismo imperfetto che dagli ideali della partecipazione democratica si è spostata alle distopie della moltitudine infelice. La città genera sempre più conflitti nella misura in cui ha dismesso il compito associativo che ne sta alla base, nato dalla reciproca sinergia delle attività e dal valore primario dell’abitare come ideale luogo per la rigenerazione di risorse culturali e sociali. A questa condizione di crisi la quale prospetta il decadimento fisico della sua natura si può e si deve rispondere con l’affermazione di una Civiltà del Diritto. Questa può sopravvivere solo dal riconoscimento e dal rispetto di taluni valori condivisi che attengono al modo di una geografia dei “Beni Comuni”, al rispetto dell’Altro nell’agire proprio, al supremo valore della Vita come elementare fondamento della comunità. Da questa ultimissima dolorosa vicenda dobbiamo innanzitutto imparare la prima grande lezione (considerando che si fa presto a scordare): ci siamo salvati e ci salviamo solo nel riconoscimento di comportamenti e regole di reciproco rispetto.

                Le istanze delle imprese e delle attività economiche particolari, legittime nel principio di una liberale iniziativa, devono armonizzarsi all’interesse più generale della Comunità col riconoscimento dell’intangibilità dei Beni Comuni. La città, in quanto tale, è per sua stessa definizione un bene comune, il quale deve essere Tutelato a partire dalle forme provenienti dalla Storia non solo come principio di Cultura inderogabile ma come materiale sociale irripetibile e unico su cui fondare la qualità della Vita; l’identità dei valori condivisi a partire dalla Bellezza. Qualsivoglia operazione che riguardi un processo di trasformazione della Città oggi deve prima di ogni azione, salvaguardare questo elementare principio il quale deve considerarsi un “produttore di Risorsa”. Il ruolo della coscienza, già affermato nella metafora freudiana della stratificazione esistenziale della Roma antica, dal piano della simbolicità si sposta alla effettiva archeologia ed alla continuità diacronica del costruito. La reputazione della Città, una volta demandata ai semplici paradigmi iconologici: la Tour Eiffel in quanto capacità dell’ingegno, il Colosseo in quanto Storia, la Libertà fatta statua in quanto valore ideale, si fonda oggi sul rispetto di una certa serie di compiti e di funzioni universalmente riconosciuti. In cima ad essi è la sostenibilità dei modelli di sviluppo. Moltissime disfunzioni discendono dal disordinato processo delle attività di moltitudine e dalle economie dei consumi che gravitano su questa. La grande area metropolitana può diventare un inferno o l’occasione di una civiltà. L’importante è rispettare la duplice centralità dei suoi presupposti necessari: la sua storia e la sua completa coscienza stratigrafica, la sua impresa tecnologica e la sua organizzazione funzionale. Solo una vera reciprocità di questi ingranaggi ed il rispetto delle regole del gioco possono essere base del risultato futuro, considerando comunque che alle loro prerogative devono strategicamente destinarsi risorse umane e finanziarie competenti e di alto profilo morale.

                Le attività produttive pretendono l’assoluta libertà delle azioni e ne diffondono strumentali diritti come quelli della politica del Fare[1]. Il tendenzioso e strumentale messaggio insito nel “Fare”, di per sé insignificante, è la più immediata semplificazione del concetto qualunquista del: “Fate quel che volete”. Questa eloquente asserzione artificiosa non è però come si dovrebbe credere l’affermazione del principio di libera attività contro le vessatorie censure di un potere di Stato fatto di nomenclature burocratiche. Il Potere oggi non coincide esattamente con il legislatore materiale; con le rappresentanze istituzionalizzate. Questi messaggi inviati al sistema del consenso, confondono e nascondono il ruolo di “libertà e prescrizioni” affinché, tra le maglie faticosamente ordite dalla Civiltà del Diritto, possano legittimarsi ed affermarsi ancora una volta interessi contrari al Bene Comune. Molto spesso nascondono l’intento di costruire superficiali consensi ad una malintesa libertà di incondizionate e accidentali trasformazioni della città; tutte quelle raggiungibili dal meccanismo dell’investimento: l’intrigo e la furbizia di isolate e singole entità economiche che via via si trovano strategicamente in posizione favorevole nella dinamica dei rapporti sociali. L’apparato burocratico delle istituzioni, è stato con generalità spesso delegittimano per favorire una “mano libera”. L’ordinamento statale, in assoluta condizione di fragilità, si trova esposto alla facile delegittimazione, stretto in una morsa letale tra due opposte fazioni: quella di chi brandisce la “politica del fare come si vuole e piace”; quella di chi invoca pregiudizi di stretto controllo sulle pratiche sociali. Uno Stato ed una Società saranno adeguati ad un futuro sostenibile quando supereranno, nella certezza di ruoli e di regole e nella capacità di esercitarne fattivamente tutti i diritti, questa continua conflittualità.

                Alcuni brevi esempi si rendono tuttavia concretamente necessari.

                Le Autocertificazioni. Lo strumento delle autocertificazioni ha oggettivamente corrisposto alle disfunzioni di un sistema che ha riempito di procedure l’attività e l’agire sociale. Le norme “passive” in genere, com’è noto, nascono dal manifestarsi di devianze che non sono più ritenute tollerabili e che ledono i principi affermati nell’assunto dei Diritti Costituzionali. La “pratica amministrativa” non è però come liberarsi da quei doveri ma, una provvidenziale agevolazione del loro compiersi nella pratica del diritto. A fronte di discipline particolarmente estese e complicate come quella Urbanistica, o quelle estremamente delicate e specialistiche come quella dei Beni Culturali e Paesaggistici, la pratica delle autocertificazioni, necessita di una capacità di verifica e controllo estesa e tempestiva. A tale esigenza dovrebbe dunque corrispondere una certa capacità dello Stato di disporre le necessarie funzioni di sorveglianza e tutela. Nulla di tutto questo è invece concretamente avvenuto. La desolazione in cui sono piombati gli uffici delle Soprintendenze in questi ultimi anni[2] giunge nel momento più delicato e meno protettivo di quei Beni così importanti per la collettività. Oggi si invoca l’estensione di queste pratiche fino all’annullamento dei “termini di garanzia”. Ciò può valere oggi solo in via teorica e come principio di immaginazione sociale. Si può affrontare una civiltà della responsabilità solo e soltanto quando i due aspetti pubblico e privato siano realmente confrontabili. Oggi è ovvio che, in assenza delle strutture di controllo in grado di intercettare le irregolarità di cui è stato pieno il nostro passato di sanatorie e condoni, risulta rischioso e improprio.

La recente vicenda riguardante l’approvazione del PTPR della Regione Lazio (Piano Territoriale e Paesaggistico Regionale), che non ha voluto caparbiamente riconoscere il ruolo superiore dell’interesse nazionale ponendosi in aperto conflitto con la tutela dei beni paesaggistici intesi nella loro sostanziale e precisa individuazione di sistema, ha messo in luce un altro nodo irrisolto. La sua cronaca è sintomatica della scarsa sensibilità ed eticità delle istituzioni. Oggi non è a tutti noto che su Roma, sulla città più importante della Storia Universale del mondo la quale può sopravvivere a questo inesorabile declino solo con il riordino programmato del suo territorio, non esistono garanzie di tutela. Gli unici vincoli che ne preservano l’ingente valore diffuso, sono quelli ovviamente puntuali sui monumenti. La necessità di dotarsi di buone strumentazioni che diano certezze alle progettazioni è quasi ovvia. Servirebbe intanto avere un Piano Regolatore efficace e degli uffici che ne sappiano gestire rapidamente la concessione dei diritti. Serve infatti stabilire indispensabili regole alle trasformazioni, come anche la intangibilità della città storica, dei suoi luoghi, del Paesaggio, della sua diffusa qualità edilizia. L’immagine di una città ingessata è invece opposta a questa necessità. Roma è oggi preda di attività occasionali, sporadiche e imprevedibili, contrarie ad ogni efficace sistema programmatico di sviluppo. Contrariamente a chi lamenta la immobilità delle attività edilizie addossandone la colpa ai vincoli, bisogna opporre la totale inesistenza di indispensabili regole all’attività. Tutto è disordinatamente pervaso da un senso di anarchica prospettiva. L’unica capacità di difesa degli aspetti più significativi sono dunque le protezioni esperibili attraverso le procedure del vincolo monumentale. Non esistono infatti regolamenti di altra natura che possano difendere le ragioni della contestualità di un tessuto storico edilizio continuo, caratteristico, singolare e altamente significante per indirizzare un modello, per enucleare una polarità da cui partire, per garantire e predisporre un confronto, una misura della Bellezza. Il così detto vincolo “delle Belle Arti” è evidentemente uno strumento di ripiego giacché, dovrebbe esserci una corretta disciplina urbanistica in grado di rendere certi i processi democratici di trasformazione della città. L’urbanistica a Roma è però ormai alla deriva ed in balia di sottoproduzioni estetiche; ché l’Urbanistica è l’Architettura regolata sulla scala cittadina! La città è però di tutti! Lo dimostrano le squalificanti trasformazioni che hanno assunto più che altro il carattere di vere e radicali “mutazioni” (nel senso dei principi genetici).

Il Contemporaneo vuole dissipare dunque la forma storica della città, stravolgendone il riconoscimento della sua fenomenologia (wissen stadt), delle sue caratterizzazioni, dei suoi valori d’insieme, delle riconosciute bellezze. Questa azione però passa solo attraverso l’utilità di un interesse economico particolare causando l’abbattimento del valore immobiliare generale, una volta determinato e garantito dal fatto di essere un singolare tessuto di forte caratterizzazione storica e di univoca continuità formale. Le leggi sulla Rigenerazione Urbana, nate per favorire il recupero delle periferie e dei quartieri in stato sociale di disagio, servono attualmente – grazie all’assenza di regole certe e dell’Urbanistica – a casuali microtrasformazioni. Avvengono sporadicamente nei tessuti di maggior valore e qualità: quelli del Liberty, del fin de siecle, degli anni Trenta. Le comunità di quartiere sono in grande fermento. Hanno nettamente percepito che un tale processo di sostituzione inizia a ridurre rovinosamente il valore dei loro immobili, che in tempi di grande contrazione permettono ancora una certa dinamica dell’offerta. Il modello edile è una ulteriore perdita di identità dovuta essenzialmente all’abbattimento di prezzo delle tecniche adottate e dei materiali a poco costo. Riproduce stilizzazioni di basso profilo in pseudo stile internazionale anni Trenta, come quelli provenienti dalle sperimentazioni sullo “existenzminimum” della Germania tra le due guerre: parte in mattoni, le finestre quadre, le balconate su mensoloni, ecc. Un cattivo uso dei vecchi maestri rifatti come loro stessi non avrebbero mai voluto essere: come delle pessime copie fuori da ogni contesto.

La città ha bisogno che queste forze si orientino piuttosto alla risoluzione dell’enorme problema rappresentato dalle sue periferie. Quelle leggi sulle rigenerazioni urbane, se fossero realmente utilizzate per ricucire un abito alla città, per procurare l’occasione di uno sviluppo utile all’intera Comunità, sono sacrosante. Chi frequenta questi ambiti estremi sarà in grado di riconoscerne l’importanza economica, sociale e culturale. Ancora una volta, attenzione, non si parte dal nulla. Anche lì esistono stratigrafie lunghe o brevi di un’antica geografia ed è questa, ancora una volta, la vera risorsa della città e la possibilità di trovare gli elementi indispensabili di una qualità esistenziale. Hanno costruito dormitori e casermoni ingovernabili buoni per girarci i film del disagio sociale e dove non c’è alcun senso estetico comunicabile al di fuori del meccanismo di consumo. Sarà il caso di dar vita alla più importante impresa del nostro futuro.

[1] Il potere della finanza, quello che costituisce l’occulto meccanismo determinante, non si mostra più come i poteri dell’età classica attraverso i simboli ma, attraverso la concretezza delle processualità sociali, diffondendosi a diversi strati e varie dimensioni investendo interamente il Risparmio.

[2] Alle pochissime assunzioni si sono aggiunti i trasferimenti di personale al complesso settore dei musei e l’uscita di un gran numero di funzionari.

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