Nell’isola sono decine i progetti [1] presentati in questi ultimi mesi che cercano di accaparrarsi terre agricole da trasformare in aree industriali per la produzione di energia elettrica. Tutto questo sotto l’etichetta di “sviluppo sostenibile”, termine ormai talmente inflazionato e abusato da fungere quale “mano di vernice che si è dato il capitalismo aggressivo e decrepito.” [2]
Per valutare la reale sostenibilità di questi progetti, bisognerebbe chiedersi se è sensato:
- continuare a installare impianti FER (fonti energie rinnovabili) in totale deregulation;
- sacrificare i terreni agricoli invece di utilizzare le tante aree industriali dismesse disponibili in Sardegna;
– distruggere la produzione agricola e l’economia locale, a danno di biodiversità e territorio.
È necessario ribadirlo: gli impianti che utilizzano le FER, collocati in aree agricole, non possono essere definiti né green, né sostenibili per l’abnorme consumo di suolo. Il cambiamento della funzione d’uso del suolo è tra le prime cause dei cambiamenti climatici.
Lo scorso 5 dicembre si è celebrata la Giornata Mondiale del suolo, lo ricordiamo citando il rapporto ISPRA 2019 che evidenzia l’avanzamento del consumo di suolo in Italia al ritmo di circa 16 ettari al giorno, con la perdita di 2mq al secondo, pur in presenza di un decremento demografico. Il danno economico è valutato oltre i 3 miliardi euro/anno, solo per la perdita dei servizi ecosistemici, oltre ai danni indiretti causati alla fragilità del sistema. Eppure la politica isolana ripropone l’ennesimo Piano Casa con incrementi esponenziali di cubature, ignorando la leadership dell’Isola per la quantità pro capite di suolo consumato (UTA ed Assemini tra i primi dieci comuni d’Italia per suolo consumato dovuto all’installazione di pannelli fotovoltaici su aree agricole).
Fortunatamente, le Comunità locali si sono opposte alla cecità politica. Italia Nostra, assieme ad altre associazioni e comitati, hanno messo in campo azioni tese a porre un freno a queste nuove forme di “invasioni”. Una di queste iniziative ha consentito di bloccare il progetto del megaimpianto termodinamico solare “Gonnosfanadiga”, (500 ettari di agro consumati se lo si somma a quello del progetto gemello di Villasor). Un importante risultato che ha salvato la terra e l’economia di quel territorio, ma che dimostra quanto la presa di coscienza collettiva contribuisca a salvare economia locale e territorio.
Tutto ha inizio quando nel 2012, Luciana Mele, allora Assessora all’ambiente del Comune di Gonnosfanadiga, viene a conoscenza dell’arrivo di un progetto di Termodinamico Solare a opera della “LTD Gonnosfanadiga”. L’Assessore si informa, legge il progetto e partecipa ad alcune assemblee che nel territorio parlano di questa tipologia di impianti.
Resasi conto di quanto si prospettava, informa i cittadini in una apposita assemblea e con alcuni di loro e col Comitato di Guspini già costituito, contribuisce alla formazione di altri Comitati che si moltiplicano nei paesi limitrofi e che ricevono il supporto di Italia Nostra e varie Associazioni ambientaliste. Seguono anni di incontri, di assemblee e manifestazioni, che sfociano nella presentazione di centinaia di pagine di osservazioni nel corso del procedimento di VIA, nelle quali si evidenziano le omissioni e le incongruenze presenti nel progetto. Infatti, dopo un lungo e sofferto iter, il 22 dicembre del 2017, il Consiglio dei ministri lo dichiara respinto.
A Gonnosfanadiga tra quelli che da subito non hanno creduto e ceduto alle prospettive millantate dagli speculatori, c’è stato Gianfranco Usai. Era ed è un pastore-agricoltore Gianfranco, il cui lavoro può costituire un esempio di buone pratiche di gestione della terra. Alla base dei suoi prodotti (latte, carne, olio, cereali, foraggio) c’è la cura e la consapevolezza di quanto sia preziosa tale risorsa. Alleva le sue pecore in maniera sostenibile: la terra di cui dispone oltre a ospitare un numero dei capi in funzione del pascolo è destinata alla produzione di foraggio – orzo, piselli, avena – che per l’eccedenza vende ad altri allevatori. Non utilizza mangimi provenienti da coltivazioni intensive, perché è conscio che queste sono concausa della deforestazione nel mondo. Inoltre, fa quello che dovrebbero fare tutti coloro che lavorano e rispettano i cicli naturali della terra: diversificare e alternare le colture. In questa maniera non depaupera il suolo ed aiuta la sua azienda a mantenersi in salute e a superare più facilmente i periodi di crisi. Il suo cultivar fa tesoro di antiche esperienze, utilizzando la rotazione delle colture per concedere riposo alla terra secondo un ciclo armonico e conferire ad essa fertilizzanti naturali attraverso la semina dei legumi che arricchiscono il terreno di azoto.
Recentemente una nuova sfida: su una parte dei terreni sparge antiche sementi (Karalis e Nuraghe) per la produzione di grano duro, fornite dall’Agris (Agenzia regionale agricoltura). Riprendere la coltivazione di queste antiche varietà ha un doppio valore. Ecologico, per la conservazione di quella biodiversità di cui noi, abituali consumatori di cibi standardizzati dalla omologazione distributiva, non abbiamo percezione. Simbolico, per la implicita opposizione alle egemonie di mercato, che mirano a concentrare semi selezionati nelle mani di alcuni speculatori.
Attualmente, in seguito a recenti fusioni, la metà dell’intero mercato mondiale è in mano a sole tre multinazionali mentre quarant’anni fa erano più di 7mila le ditte sementiere. Emblematico il caso che ha di recente coinvolto anche la nostra Isola, quando ci si è visto sottrarre la possibilità di produrre il grano duro Senatore Cappelli a vantaggio di un colosso nazionale, la SIS (Società italiana di sementi) di Bologna, cui è stata conferita in esclusiva la distribuzione. Si è così cancellato d’un colpo un lavoro trentennale di recupero di una varietà storica di semi portato avanti da altri, creando di fatto un monopolio come la stessa Antitrust ha di recente confermato.[4]
E’ giusto dunque chiedersi cosa possiamo fare in concreto per non rendere vani gli sforzi di coloro i quali vedono nella terra non l’oggetto di una proprietà da usare ed abusare, ma un fragile dono transitorio da preservare per le generazioni future. Per paradosso l’arma più potente nelle nostre mani è quella che il modo di produzione capitalistico ci ha confezionato per autodistruggerci: il consumo! Fare oggi la spesa deve per noi tutti tradursi in una cosciente azione di solidarietà a sostegno di chi si ispira ad un modello virtuoso di coltivare la terra. In tal modo noi trasformiamo un agire quotidiano in una concreta “azione politica”. In altri termini, lo svolgersi di un’attività del tutto ordinaria come la spesa, può tradursi in un micidiale strumento per contrastare a livello globale i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità, oltre che renderci uomini liberi.
L’ISTAT, per il 2018, ha stimato che il valore della spesa alimentare domestica in Italia corrisponde a ben 142,5 miliardi di euro, con una spesa pro capite di € 2.428. Questi dati confermano che abbiamo un potere enorme ma inconsapevole a disposizione col quale, volendolo, potremmo garantire la nostra come la salute del pianeta, oltre che conferire il giusto compenso a chi lavora la terra. Sono lavoratori, i contadini ed i pastori, che non conoscono la differenza tra giorni feriali e giorni festivi, che lavorano esposti ad un clima sempre più inclemente, e che dalla mancata valorizzazione del loro lavoro sono indotti all’abbandono della terra.
Secondo Coldiretti, in Italia, negli ultimi 30 anni sono stati abbandonati 3 milioni di ettari di terreno coltivato – un’area più vasta dell’intera Sardegna – e sono più di un milione gli agricoltori che sono stati costretti ad abbandonare queste aree. Oltre alla perdita di moltissimi posti di lavoro, queste aree abbandonate, inevitabilmente sono diventate oggetto di azioni speculative e di degrado. Le campagne abbandonate amplificano infatti le conseguenze di frane, esondazioni, allagamenti, incendi che devastano il territorio e determinano non solo un danno ecologico ma anche economico.
La politica, anzichè continuare a pensare alla terra e al suolo come un qualcosa da riempire, occupare, sfruttare dovrebbe sancire il valore inalienabile del capitale ambientale e riconoscere agli agricoltori il ruolo di suo custode, tutelando la loro azione e garantendo la conservazione delle aree agricole. Non sembra pertanto più derogabile una normazione che individui le caratteristiche cui debbano soddisfare le aree da ritenersi idonee per l’insediamento di impianti FER, affinchè si metta un freno al loro indiscriminato proliferare ed alla trasformazione di aree agricole in industriali.
Giusi Angioni – delegata Italia Nostra Sardegna Cibo e Consumo sostenibile
[1] Si tratta di 8 impianti eolici e 53 impianti fotovoltaici, per un totale di quasi 5.000 ettari di superficie occupata, di cui intorno a 3.000 di suolo agricolo, e 2.240 MW di potenza complessiva, un valore addirittura superiore al totale installato su tutta l’isola fino ad ora.
[2] Roberto Mancini, https://altreconomia.it/idee-eretiche-197/
[3] Le aree perse negli ultimi 7 anni garantivano la fornitura di 3 milioni e 700mila quintali di prodotti agricoli, 25 mila quintali di legname, lo stoccaggio di due milioni di tonnellate di carbonio e l’infiltrazione di oltre 300 milioni di mc di acqua che scorrendo in superficie non solo non è più disponibile per la ricarica delle falde ma aggrava il rischio idrogeologico.
[4] La sentenza Antitrust evidenzia che SIS ha di fatto imposto un regime di monopolio “sfruttando abusivamente la propria posizione di forza commerciale a danno dei coltivatori interessati alla semina e al raccolto di grano Cappelli” e creando, dunque, una “filiera chiusa”. Tra le scorrettezze: l’ingiustificato aumento del prezzo delle sementi per gli agricoltori (oltre il 60% in tre anni), l’obbligo di consegna del grano prodotto a circuiti ben definiti e forti discriminazioni nella vendita delle sementi. (Fonte CIA-agricoltori)
Per approfondimenti: