Italia Nostra

Data: 5 Ottobre 2016

Mostra per il 50° dalla scoperta delle Veneri di Parabita

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Era il 1965 quando Giuseppe Piscopo e Giuseppe Coluccia, studiosi che facevano parte del Gruppo speleologico salentino, insieme al giovane Antonio Greco, professore, e allo studente Antonio Cesare Piscopo (figlio di Giuseppe), decisero di condurre una campagna di ricerche in diverse grotte del Salento, dal Capo di Leuca alla costa neretina. Fu così che il pomeriggio del 14 agosto, Giuseppe Piscopo e Antonio Greco riuscirono a entrare nella prima parte della Grotta che si trova in Località “Monaci”, in agro di Parabita, (detta “grotta ‘tu Nicola fazzu”) ai confini con il territorio di Tughe. La seconda parte della cavità era inaccesssibile, ostruita da massi e terriccio. Acceso l’interesse, ci furono, naturalmente, successive escursioni su cui Giuseppe Piscopo inviava a Mario Moscardino (allora presidente del Gruppo speleologico salentino) delle note che furono pubblicate sulla “Zagaglia” nel marzo del 1966.

Piscopo parla in quegli scritti della “più importante tra tutte le grotte visitate per quanto riguarda la rarità e l’importanza di alcuni reperti”, sostenendo come fosse “assolutamente indispensabile aprire un regolare cantiere di lavoro allo scopo di determinare con sicurezza l’età e la facies della grotta”. “E stata regolarmente rilevata anche la pianta topografica del primo vasto atrio d’ingresso – scriveva Piscopo – Tra i vari reperti notati ad un primo modesto sondaggio, vi si notano: lame di selce e di ossidiana dell’era neolitica di varia grandezza (…)”. E poi ancora, leggiamo, “…Un’ascia in bronzo. Da notarsi la mancanza di bordi ribattuti ed intacche per la legatura. Appartiene perciò alla prima epoca del bronzo. Pietosamente raccolti in una piccola cella funeraria una mandibola umana con i denti quasi al completo, un osso occipitale (…) e numerosa ossa corte delle dita (falangi, falangine, falangette). E chiara l’appartenenza all’ Homo Sapiens”. Le informazioni di Piscopo erano molto dettagliate. Lo studioso notava come la grotta che per secoli era stata un inghiottitoio, avesse alla fine raccolto materiale di varie epoche. Piscopo raccontava, certo, ma esortava anche ad avviare dei seri lavori di scavo: “Sono convinto – scriveva – che tale lavoro non mancherebbe di dare i suoi preziosi frutti, contribuendo così all’illustrazione di questo nostro Salente e della sua preistoria ancora alquanto confusa ed incerta”. Le ricerche, per vari motivi, vennero riprese solo l’anno dopo con la disponibilità di alcuni operai (rimborsati all’inizio dallo stesso Piscopo). Lo scavo interessò anche la seconda parte della Grotta dove in due tempi, vennero ritrovati e consegnati a Piscopo dei singolari manufatti di cui non si comprendeva la natura. Piscopo ne parlo col giovane archeologo Cosimo Pagliara che a sua volta informò Antonio Mario Radmilli, docente di Paletnologia all’Università di Pisa (allora da poco docente anche all’Università di Lecce), il quale rilevò la natura, l’identità e l’importanza di quei piccoli frammenti di ossa. Erano state scoperte le Veneri di Parabita. Grande fu l’intesse scientifico tanto che nel maggio dello stesso 1966, per conto dell’Isti- tuto di Antropologia e Paletnologia Umana dell’Università di Pisa, in collaborazione con la Soprintendenza alle antichità di Taranto e il Gruppo Speleologi- co di Maglie, venne avviata la prima vera campagna di scavi nella grotta (appena denominata “Grotta delle Veneri”) con i fondi messi a disposizione dall’Università di Pisa. Foto e dettagli dei risultati (con relative comparazioni con altri esemplari simili ritrovati in alcune realtà europee) vennero ancora una volta sulla “Zagaglia”, nel settembre ’66 a firma di Piscopo e Radmilli. Fu in quel periodo l’amministrazione comunale di Parabita (sindaco G. Cacciapaglia), sollecitata da Piscopo e Radmilli, acquistò una porzione del terreno su cui insisteva la bocca della Grotta in modo da consentire il regolare e libero accesso agli studiosi. Notevole fu la risonanza che ebbe la notizia del ritrovamento delle due Veneri e dell’importanza di quel sito preistorico. Grande entusiasmo circolava tra i docenti e gli studenti dell’Istituto d’Arte di Parabita (dove allora frequentavo il secondo anno), nato da pochi anni e diretto da Luigi Gabrieli. Non a caso tre anni dopo, da studente di anatomia artistica deh’Accademia di Belle Arti a Lecce, proposi alla mia docente Bianca Celli una tesi sul tema delle “Venere paleolitiche”; in quel lavoro, dopo aver illustrato le caratteristiche generali e le motivazioni che erano alla base di tali manufatti preistorici e le loro fattezze anatomiche, misi in evidenza le particolarità anatomiche e la bellezza delle due Veneri grazie anche alla dettagliata descrizione fatta da Piscopo e Radmilli sulla “Zagaglia”. Intanto i due importanti reperti delle Veneri, scolpiti su osso di cavallo o di bove, vennero consegnati ad Attilio Stazio (allora Soprintendente per l’archeologia) per custodirle nel Museo di Taranto ove da allora sono esposti tra le più importanti testimonianze archeologiche dell’Italia meridionale. Nel 1968, su indicazione di Radmilli, subentrò all’insegnamento di Paletnologia all’Università di Lecce il giovane Giuliano Cremosi dell’Università di Pisa che, con il suo gruppo di ricercatori (tra questi Elettra Ingravallo e Antonio Piccinno) e alcuni studenti, proseguì con professionalità e passione un’intensa campagna di scavo nella Grotta delle Veneri per tutti gli anni ’70 e che portò al rinvenimento di una moltitudine di reperti. Tutti i materiali rinvenuti nella Grotta durante gli scavi effettuati da Cremonesi vennero poi portati a Pisa per essere studiati e catalogati, lavoro che fu effettuato in parte, e interrotto dalla scomparsa di Cremonesi nel settembre del 1992.

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Per ricordare l’impegno dello studioso, nel 1997, su iniziativa della Provincia di Lecce, della Soprintendenza archeologica di Taranto e dell’Università del Salente, una mostra e un convegno vennero organizzati al Museo “Castromediano” di Lecce e fu pubblicato il libro “La passione delle origini” (curato da Elettra Ingra- vallo) sulla cui copertina erano riprodotte le due Veneri di Parabita. Nel settembre dello stesso anno che, in occasione del decennale della Sezione Sud Salente (allora denominata di Parabita), dieci targhe, su cui erano riprodotte le due Veneri paleolitiche, vennero consegnate a personalità della cultura salentina (tra cui Piscopo e la Ingravallo).

Una targa speciale fu realizzata in ricordo di Cremonesi. Queste e altre, successivamente, furono alcune delle iniziative per tenere alta l’attenzione sulla scoperta. La Sezione Sud Salente di Italia Nostra (ma non solo) sollecitò più volte la Soprintendenza di Taranto e il Comune di Parabita perché la Grotta delle Veneri venisse tutelata e vincolata, anche per evitare la costruzione di villette (purtroppo alcune furono comunque realizzate) a poca distanza dal sito. Qualche anno fa, su input di Salvatore Bianco (allora Responsabile del Centro operativo di Lecce della Soprintendenza di Taranto), si cominciò a lavorare per il rientro da Pisa a Lecce dei circa 20mila reperti rinvenuti nella Grotta delle Veneri. Il risultato arrivò nell’aprile del 2014, grazie anche alla collaborazione del presidente della Provincia di Lecce Antonio Gabellone che reperì le risorse per il trasporto in sicurezza dei reperti, con l’avvenuto rientro a Lecce di quelle numerose ed importanti testimonianze depositate oggi presso l’Università del Salente in attesa che, con il finanziamento di un apposito progetto (in fase di predisposizione), possano essere studiate e valorizzate.

Marcello Seclì

 

 

 

 

 

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