Italia Nostra

Data: 4 Dicembre 2017

Premio “Umberto Zanotti Bianco” 2017: discorso di Vittorio Emiliani

Si pubblica il discorso tenuto da Vittorio Emiliani  – scrittore, saggista, giornalista, autore di “Lo sfascio del Belpaese” (Edizioni Solfanelli, Chieti-Roma, 2017) –durante la cerimonia del Premio “Umberto Zanotti Bianco” tenutasi il 24 novembre 2017 a Roma, presso la Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani (Senato della Repubblica).

Una definizione certamente incisiva di Umberto Zanotti Bianco è quella che di lui diede Giovanni Spadolini: un apostolo laico della libertà. E, viene da aggiungere, del meridionalismo, dell’istruzione, delle classi più povere e disagiate, delle minoranze perseguitate come gli Armeni che accolse e assistette in Puglia, del patrimonio storico, artistico e paesaggistico dell’Italia. Un antifascista, Zanotti Bianco, che già nel 1924, come concreta e indignata protesta contro il delitto Matteotti, restituisce allo Stato la medaglia d’argento che si è guadagnato sul San Michele del Carso dove ha subito una devastante ferita e la medaglia d’oro meritata per l’attività incessante in favore della scuola e dell’istruzione nel Sud, specie in Calabria. L’anno dopo è fra i firmatari del manifesto Croce in contrapposizione al manifesto Gentile degli intellettuali fascisti.

È già stato e sarà per tutta la vita un infaticabile, straordinario educatore di giovani, un personaggio del quale oggi ci sarebbe più che mai bisogno in tempi di indifferenza, di separatezza, di individualismo esasperato. Ma anche di grande volontariato.

Una personalità molto complessa, formatosi fra cattolicesimo modernista (padre Giovanni Semeria, Romolo Murri, Antonio Fogazzaro), stroncato dall’enciclica Pascendi, mazzinianesimo e liberalismo laico, praticato quotidianamente. Zanotti Bianco nasce a Creta nel 1889 da un padre, Gustavo, diplomatico piemontese e da una madre, Enrichetta, scozzese di ascendenza svedese. Studia a Torino al Collegio “Carlo Alberto” di Moncalieri dai padri barnabiti dove conosce padre Semeria che lo presenterà a un scrittore “vitando” come il modernista Antonio Fogazzaro, al quale farà sempre riferimento come al suo amato Tolstoi umanitario e pacifista. Risulta il miglior allievo alla licenza liceale (allora si diceva, Principe degli studi), si iscrive all’Università, ma, neppure ventenne, corre con l’amico vicentino Giovanni Malvezzi a Reggio Calabria e a Messina colpite dal terribile sisma del 28 dicembre 1908 dove un maestro di storia e di politica quale Gaetano Salvemini ha perso tutta la famiglia. Si laureerà più tardi.

Da quella terribile esperienza nasce il suo profondo amore per la martoriata, abbandonata Calabria e anche l’amicizia feconda con Salvemini che durerà tutta una vita. Nel 1910 nasce infatti l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (ANIMI) di cui Zanotti Bianco sarà l’animatore anche negli anni difficili della dittatura fascista, quando Achille Starace, segretario del PNF, ne chiederà la soppressione e lui la salverà facendo intervenire la principessa Maria José di Savoia che ha, fra l’altro, quale dama di compagnia Giuliana Benzoni, personaggio importante dell’antifascismo, che a lei farà poi da tramite con gli oppositori del regime, a cominciare dal riformista Ivanoe Bonomi, poi presidente del Comitato di Liberazione Nazionale a Roma. Giuliana Benzoni ci ha lasciato un ritratto anche divertito di Umberto Zanotti Bianco: “Fra i fondatori dell’Associazione splendeva per ardore, bellezza fisica, passionalità, origini ‒ semi-inglese e semi-piemontese ‒ Umberto Zanotti Bianco. Esile, dagli occhi cerulei, con biondi capelli da agnellino, arricciolati che adornavano una testa da cherubino. Affascinante come una visione, spirituale come un santo, concreto come un banchiere. Zanotti era un tombeur des femmes eccezionale”.

Ma torniamo alla prima guerra mondiale. Zanotti Bianco parte volontario come Salvemini e altri esponenti dell’interventismo democratico, di stampo risorgimentale, e nell’agosto del 1916 viene purtroppo ferito all’addome in modo assai grave. Ma continua a battersi contro i sempre più insorgenti nazionalismi, contro il dannunzianesimo, con la rivista “La Voce del Popolo”. Ho già detto del gesto esemplare di restituire medaglia d’oro e d’argento per protesta contro il delitto Matteotti. Continua un’intensa attività pubblicistica. Nel 1925 pubblica da Vallecchi un breve volume di note su “Il martirio della scuola in Calabria”, dedicato ai maestri elementari di quella regione che da anni oppongono (scrive) “alla polvere delle vane carte, alla crudeltà delle vane parole l’umile azione della loro fede ignorata”. All’epoca ‒ denuncia ‒ a Montefollone le due uniche stamberghe esistenti hanno un pavimento scalcinato, pareti umide e sono prive di inferriate, a Crosia sono prive di luce e quando è nuvolo non si può fare scuola, a Rosarno si fa scuola in baracche fradice e sconnesse come a Casoleto, o a Nicotera dove sono “indecentissime”. Il contributo dello Stato viene concesso soltanto per integrare i magri fondi comunali, ma sui 68 milioni di mutui statali accordati dalle leggi fra il 1878 e il 1906 alla Calabria toccano meno di 352.000 lire e su 2 milioni e mezzo di sussidi integrativi la Calabria riceve 250 lire in tutto. Da Torino il professor Augusto Monti, maestro di tanti antifascisti torinesi o piemontesi (Massimo Mila, Vittorio Foa, Leone Ginzburg e tanti altri) esorta le città del Nord ad “adottare un borgo del Sud (…) regali al figlioccio una bella scuola nuova”. Questo per dire lo spirito meridionalistico di certi maestri di allora.

Umberto Zanotti Bianco si occupa in particolare del paese di Africo sull’Aspromonte, sul quale scriverà un libro, pubblicato soltanto dopo la guerra, dal titolo di per sé significativo “Fra la perduta gente”. Un borgo scosso da un forte terremoto, sulle cui condizioni miserrime ha condotto una inchiesta un giovane meridionalista di talento, Manlio Rossi Doria, formatosi alla scuola di Zanotti Bianco. Questi ha lasciato pagine di una lacerante drammaticità raccontando come certe notti si ritrovasse a gridare, da solo, in una di quelle catapecchie contro le ingiustizie tremende che avevano colpito e colpivano quella “perduta gente”: tasso di analfabetismo altissimo al pari della mortalità infantile e della tubercolosi, niente medico (quello che si è offerto è un confinato per antifascismo). La pesante “tassa sulle capre” e la soppressione dei molini locali hanno ancor più impoverito i già miseri abitanti. Africo è stata in seguito trasferita in basso, ad Africo nuova, con un provvedimento burocratico e sbrigativo al quale invano si oppose l’ANIMI, i contadini infatti venivano spossessati delle loro terre e come deportati, mentre c’era una zona pianeggiante, in alto, dove il paese poteva ben essere ricostruito. «La burocrazia non ha il diritto di annullare con un tratto di penna questo lavoro secolare, con lo spedire quelle turbe disgraziate là ove la terra è posseduta da altri». Lo spirito profondamente liberale di Zanotti Bianco si rivoltava contro una decisione che oltre tutto, distruggendo una tradizione agro-pastorale e sradicando decine di famiglie, finiva per accrescere il potere della ‘n drangheta, come ha ben documentato Corrado Stajano in un libro efficacissimo “Africo. Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta”, uscito da Einaudi nel 1979 e ora ripubblicato dal Saggiatore. Zanotti Bianco usava spedire per posta agli amici settentrionali delle pagnotte di pane locale, immangiabile, fatto di cicerchie, presto duro e muffito, per esortarli a donare fondi alla buona causa di Africo, della Calabria.

Ma ormai il regime fascista stringe la propria morsa anche su di lui, la sua attività sociale e culturale è politica. Anche l’Archivio storico della Calabria e della Lucania che ha fondato con l’archeologo di Rovereto Paolo Orsi che ha associato negli scavi in Magna Grecia. Gli viene sequestrata una lettera di critiche al regime, una lettera privata diretta a un’amica in Francia e viene incarcerato. Poi lo internano per sette mesi a Paestum e successivamente a Sant’Angelo di Sorrento. Ritornerà libero soltanto nel 1941. Da anni gli è stato vietato l’ingresso alla Biblioteca Vaticana dove sviluppava i propri studi amatoriali di archeologia. Il confino politico diventa un’occasione per dare concretezza a quegli studi. Il filantropo del Mezzogiorno, diventa l’appassionato ricercatore di antiche memorie della Magna Grecia. Lo ha già fatto nella piana di Sibari con Orsi, archeologo di mestiere morto purtroppo improvvisamente nel 1935. Lo ripete con Paola Zancani nella zona di Paestum dove, alla foce del Sele (l’approdo di Giasone coi suoi Argonauti), ritrova l’Heraion che secondo l’archeologo Pietro Giovanni Guzzo è il più importante complesso scultoreo della Magna Grecia, fra ansie e traversie continue, anche per la protezione delle metope appena rintracciate dalle intemperie.

Nel 1943 entra in contatto con i liberali che partecipano alla Resistenza, in specie con Niccolò Carandini, ma è da anni un sorvegliato speciale, deve nascondersi. Nel 1944 il governo provvisorio gli affida una presidenza decisamente impegnativa, quella della Croce Rossa, che egli regge con l’attivismo, lo scrupolo, la concretezza che gli sono propri. Continua ovviamente la propria attività di meridionalista, di elzevirista, di scrittore, di filantropo. Finché nel 1952 il presidente della Repubblica Luigi Einaudi non lo nomina senatore a vita e pure in Parlamento Zanotti Bianco dispiega un’iniziativa continua sui temi dell’istruzione di ogni livello, dell’edilizia scolastica e universitaria, rivolgendo ai ministri della Pubblica Istruzione interrogazioni incalzanti (i beni culturali sono ancora competenza della Direzione generale per le Antichità e le Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione).

Fino a quando non arriva il 1955, cioè la nascita di Italia Nostra. Dal 1946 si susseguono su alcuni giornali e riviste le denunce per l’inadeguatezza della tutela dei beni culturali e paesaggistici. Alcune inchieste del critico d’arte milanese Leonardo Borgese sulla ricostruzione delle nostre città, partendo da Milano, e sulle speculazioni che subito vi si innestano, pubblicata dal “Corriere della Sera” cominciano a smuovere l’opinione pubblica. Subito dopo, dalle colonne del “Mondo” di Mario Pannunzio, si susseguono le campagne di un giovane archeologo lanciatosi in polemiche documentate e veementi, Antonio Cederna, cognato di Leonardo Borgese. Si avverte tuttavia la mancanza di un’associazione che in tutta Italia raccolga quanti, in gruppo o isolatamente, si battono in centri grandi, medi e piccoli per un’Italia più tutelata nelle sue straordinarie e minacciate bellezze antiche, nel paesaggio, nel territorio. Come ha ben raccontato Elena Croce, figlia del grande filosofo, l’Associazione Italia Nostra “si è formata quasi da sé in una piccola cerchia di amici ‒ fra i quali non a caso erano amici di vecchia data di Zanotti Bianco, come Lelia Caetani e Hubert Howard, e Desideria Pasolini dall’Onda”, convinti che quell’iniziativa avrebbe trovato larghi consensi. Come avvenne, si aggregarono Pietro Paolo Trompeo ‒ cui si deve la denominazione di “Italia Nostra” ‒ Gino Magnani Rocca, Clemente Aldobrandini, Leopoldo Piccardi, Mario Salmi, Filippo Caracciolo, Ludovico Quaroni, Giorgio Bassani, Riccardo Musatti, Attila Cenerini. Secondo Elena Croce, è Desideria Pasolini a sostenere per prima che il presidente “non poteva che essere il quasi leggendario monaco-laico delle imprese umanitarie e sociali che il fascismo ad un certo punto, con provvidenzialismo involontario, aveva fatto diventare archeologo”: Umberto Zanotti Bianco. Il quale, pur oberato di impegni, torna subito a Roma da Paestum per accettare di essere il primo presidente di Italia Nostra.

Un presidente ‒ come ricorda lo scrittore Giorgio Bassani che sarà il terzo presidente dopo di lui e dopo Filippo Caracciolo di Castagneto ‒ che si appropria dell’Associazione, le trasmette la propria energia, il proprio assoluto disinteresse, il proprio “donchisiottismo”, dice con affetto. Perché Zanotti Bianco “era un uomo integro, un filologo, un archeologo e, al tempo stesso, un patriota. Il volto che fin dall’inizio Italia Nostra ha assunto viene senza dubbio da lui, dal suo esempio”. Difficile definire meglio l’impronta venuta all’associazione dal suo primo presidente, che si diffuse nelle sezioni che stavano generandosi spontaneamente in tutta Italia con persone colte, battagliere e assolutamente disinteressate. Era molto concreto, non si perdeva in lunghe e fumose discussioni che considerava grandi perdite di tempo. Un po’ come il più esposto dei dirigenti, Antonio Cederna, che da presidente della Sezione romana apriva i lavori di consiglio denunciando ironicamente subito “una gran noia”. Né si sprecava in complimenti. Una sera che ci fu una riunione di esponenti europei di associazioni per la tutela ci si aspettava da lui un grande discorso. Ma si limitò a dire “Merci”. E riprese amabilmente a parlare coi suoi vicini da grande affabulatore quale era. Negli otto anni della sua presidenza Italia Nostra mise salde radici quasi ovunque promuovendo tante belle battaglie contro la speculazione che minacciava tutta Italia, ma in particolare Roma antica, le città murate. Diede vita alla Carta di Gubbio per il restauro. Ottenne le prime salvaguardie speciali. Promosse una cultura della tutela più precisa, chiara, organica. Come disse al terzo convegno dell’Associazione a Venezia, “quando sarà la fine della nostra giornata, potremo ricordare con gratitudine quest’opera che avrà conservato al Paese tutto ciò per cui è amato in ogni parte della terra e al tempo stesso avrà arricchito e nobilitato la nostra vita”. E così è stato. Per lui, ma pure per tanti altri dirigenti di Italia Nostra giunta ormai oltre i sessantadue anni di vita. Auguri all’Associazione e ai premiati prestigiosi di oggi.

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