Le campagne

Data: 6 Giugno 2019

Palazzo Alberti a Melito di Porto Salvo: segnalazione per la Lista Rossa

Casino Alberti dopo il terremoto del 1908: evidente il crollo di parti del terzo piano fuori terra

Indirizzo/Località: all’incrocio della vecchia via provinciale che collega i paesi di Melito e Bagaladi, in prossimità della SS106 Taranto-Reggio Calabria

Tipologia generale: Palazzo gentilizio o nobiliare

Tipologia specifica: Palazzo Alberti, noto anche come Casino degli Alberti, venne fatto costruire da Don Domenico Alberti, marchese di Pentedattilo, intorno al 1667. Notevole per stile e dimensioni, fu utilizzato come residenza del Marchese di Pentadattilo, e fu anche sede delle sue attività agricole.

Uso attuale: Il palazzo storico si presenta oggi in uno stato di totale incuria e verte in condizioni di degrado e deterioramento. L’utilizzo del piano terreno dello stabile ad uso commerciale contribuisce ad aumentare tale degrado, poiché le diverse insegne collocate sulle ringhiere dei balconi e al piano terra, rendono ancor più disarmonica la fisionomia dell’edificio, alterata anche dalla sconsiderata trasformazione in veri e propri portoni delle due finestre quadrate che, al piano terreno,  fiancheggiavano il portale d’ingresso in modo gradevole ed equilibrato.

L’assenza di interesse culturale, la noncuranza, l’uso improprio, accrescono le condizioni già precarie dello stabile e non migliorano la facies del paesaggio urbano circostante. Si rileva, tra l’altro, la ridipintura non omogenea della facciata inferiore, realizzata  in alcune zone, che, diversamente colorate, contribuiscono a deturpare ancor di più il bene architettonico. Considerata soprattutto l’imponenza della struttura, l’importanza di alcune rifiniture dell’edificio e il valore storico che assume per il territorio di riferimento, lo si ritiene comunque bene meritevole di tutela.

Le notevoli dimensioni del bene consentirebbero la creazione di un centro culturale polivalente aperto al territorio jonico circostante il comune di Melito di Porto Salvo, così come la creazione di uno spazio museale includente anche sale dedicate alla cultura contadina, caratteristica di questa fascia di territorio.

Condizione giuridica: proprietà privata. Non esiste un documento di valutazione dei  rischi. Parti dell’edificio sono utilizzate per fini commerciali. Esso risulta accessibile, almeno per quel che riguarda il piano terra.

Segnalazione: di giugno 2019 – segnalazione della sezione di Reggio Calabria di Italia Nostra – reggiocalabria@italianostra.org

L’odierno degrado

Motivazione della scelta

Il Palazzo risulta di proprietà di un impresario farmaceutico.[1]

Il feudo di Pentidattilo, già appartenente alla famiglia baronale dei Francoperta, nel 1589, a seguito di debiti insanabili accesi dai suoi proprietari, venne venduto all’asta ed acquistato da Simonello Alberti di Messina. Alla morte di Simonello, il feudo passò nelle mani del figlio Giuseppe, da questi al figlio Lorenzo, al quale, nel 1651, successe il figlio Domenico che amministrò il feudo fino al 1685. La successione degli Alberti si protrasse fino al 1758, anno in cui morì l’ultima feudataria della famiglia, Teodora, andata sposa a Francesco Ruffo, cadetto dei Duchi di Bagnara. Nel 1760, il feudo fu venduto e il titolo di marchese di Pentidattilo si estinse.

Durante il periodo di governo di Lorenzo dapprima e di Domenico Alberti successivamente, intorno al 1630 circa, i marchesi favorirono lo spostamento dei loro coloni dalla zona aspromontana del borgo di Pentidattilo verso le terre costiere della vicina baronia di Melito, soprattutto allo scopo di incrementare le attività agricole in una zona dal clima più mite, poiché prossima al mare, e avviare, contestualmente, la pratica della pesca. Tutto ciò contribuì a far sviluppare la crescita economica del suddetto territorio chiamato Melito[2].

In detto periodo fu avviata e completata la costruzione del Casino Alberti, destinato anche allo svolgimento delle attività agricole del feudo.

A seguito del tremendo terremoto del 1783, la Rocca di Pentidattilo venne quasi completamente distrutta e diversi nuclei familiari furono costretti a spostarsi verso la marina, nel territorio di Melito, la cui  crescita demografica  si incrementò notevolmente, mentre  il borgo di  Pentidattilo finì in subordine  a  Melito stesso.

Nel 1823, il territorio dell’ex-feudo degli Alberti, comprendente anche il vecchio palazzo di Melito,  venne acquistato dai Ramirez.[3] […]Qualche tempo dopo i Ramirez vi impiantarono, a piano terra, un allevamento di baco da seta il cui prodotto veniva mandato alle filande di Villa San Giovanni per la lavorazione.

Successivamente, al piano superiore di quell’antico palazzo, andò ad abitare l’inglese Thomas Kerrich il quale proseguì con l’allevamento del baco da seta. Verso i primi anni del 1900 Kerrich cominciò ad utilizzare il piano terra per la lavorazione delle radiche di pipa. Tommaso Kerrich, rimasto senza eredi, lasciò la sua attività produttiva a Tommaso Surfaro il cui fratello, Giuseppe,  prese in fitto tutto il palazzo e impiantò una nuova fabbrica di pipe intestata a “Surfaro e Gullì” adeguandola alle subentrate esigenze industriali.[4]”[…]

Nel 1936, le parti della proprietà Ramirez, a lungo sottoposte a a sequestro giudiziario, furono  divise tra i legittimi eredi. Vennero, in seguito parzialmente vendute e la famiglia Zagarella acquistò la proprietà alle spalle del Casino, detta “Sottocasino”.[5]

Il Casino Alberti è una costruzione tutt’ora esistente, in quello che, al giorno d’oggi, si configura come centro storico della vivace cittadina jonica; esso presenta una struttura costituita da un pianterreno e un primo piano. La costruzione originaria constava anche di un terzo piano fuori terra, di cui  non rimane traccia alcuna, poiché in buona parte crollato a seguito del terremoto del 1908 e, abbattuto nelle restanti parti, in quanto pericolante.

La soluzione di chiusura della parte  alta dell’edificio, resasi necessaria dopo l’abbattimento del terzo piano fuori terra, lo ha reso, sicuramente, più tozzo e ha tolto respiro allo slancio verticale     che lo caratterizzava in precedenza.

Seppur inizialmente concepito come costruzione autonoma, pertanto di spicco nel contesto urbano di riferimento, oggi, costituisce la naturale continuazione di un isolato che ospita normali edifici ad uso abitativo, cui sembra anonimamente  uniformarsi.

La struttura esterna del Palazzo, si caratterizza per la presenza di un bel portale d’ingresso, sormontato da un imponente balcone con porta-finestra  inquadrata da due lesene chiuse da capitelli  corinzi, su cui poggia un semiarco leggermente aggettante che determina il completamento della parte centrale della facciata, più avanzata rispetto alle laterali.

Prima del terremoto del 1908, l’arco era chiuso al centro da uno stemma nobiliare, quello dei Ramirez, mentre lateralmente ad esso erano presenti altri due stemmi.

Le due possenti colonne scanalate sormontate da capitelli dorici[6], collocate al piano terreno, lateralmente al vano principale d’ingresso disposto al centro della facciata, contribuiscono a dare rilevanza a tale passaggio d’entrata, che divide simmetricamente la stessa facciata.

Alla destra e alla sinistra del portale d’ingresso, oggi sono presenti sei portoni.

In effetti, in origine, lateralmente a detto portone centrale, immediatamente fiancheggiato da una parte e dall’altra da due finestre quadrate, vi erano soltanto quattro grandi porte. Al piano superiore, sono visibili ben sei  aperture balconate, oltre a quella centrale già descritta.

Sulla facciata del Palazzo sono collocate due piccole e significative lapidi recanti le seguenti iscrizioni:

lÆta sub hoc cŒlo

jucunde en sibilat aura nunc mella effundens

ora melita nitet tempore

dmoninici alberti march. pent.

anno domini 1667[1]

 

parce manu viator – oculis  saltem

liba  haec    – amoena rura delicias – melitas  quas

ex

magnae graeciae rudere illibatae virginis

auspicio loci praesidis excitavit

dom. march. pent. 1667[2]

 

NOTE

[1] <Ecco che la gioconda aurea lietamente spira sotto questo cielo; ora, spandendo dolcezza, splendono le terre di miele, nel tempo di don Domenico Alberti marchese di Pentidattilo nell’anno del Signore (1657)>

[2]< Fermati un poco o viandante, pregusta almeno con gli occhi, questi ameni giardini, deliziose dolcezze che il Marchese di Pentidattilo Domenico Alberti scelse fra i resti della Magna Grecia e pose sotto il patrocinio dell’Immacolata Vergine protettrice di questo luogo.>

[1]Trombetta A., Memoria e Ricerca, Melito di Porto Salvo tra Ottocento e Secondo dopoguerra, Libreria Culture, Reggio Calabria, p. 58

[2] Il toponimo, di origine greca, sembra collegarsi alla presenza dell’omonimo fiume: Potamòs  tu Melìtu

[3] Trombetta A., Memoria e Ricerca, Melito di Porto Salvo tra Ottocento e Secondo dopoguerra, Libreria Culture, Reggio Calabria, p. 17

[4] Trombetta A., Memoria e Ricerca, Melito di Porto Salvo tra Ottocento e Secondo dopoguerra, Libreria Culture, Reggio Calabria, pp. 57-58

[5] Trombetta A., Memoria e Ricerca, Melito di Porto Salvo tra Ottocento e Secondo dopoguerra, Libreria Culture, Reggio Calabria, p. 59

[6] A detta degli storici, si tratta di elementi di riporto recuperati probabilmente da qualche antico monumento.

[7] <Ecco che la gioconda aurea lietamente spira sotto questo cielo; ora, spandendo dolcezza, splendono le terre di miele, nel tempo di don Domenico Alberti marchese di Pentidattilo nell’anno del Signore (1657)>

[8]< Fermati un poco o viandante, pregusta almeno con gli occhi, questi ameni giardini, deliziose dolcezze che il Marchese di Pentidattilo Domenico Alberti scelse fra i resti della Magna Grecia e pose sotto il patrocinio dell’Immacolata Vergine protettrice di questo luogo.>

 

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