Italia Nostra

Data: 7 Dicembre 2023

Considerazioni da questa parte dello Stretto di Messina. Michele Campisi

Quand’è lecito dire che la costruzione di una infrastruttura non sia “sostenibile”? Nel caso del ponte sullo Stretto di Messina in verità pensiamo che ad essere “insostenibile” sia complessivamente la sua idea. Pensiamo che nessun preziosismo tecnologico sia in grado di attraversare questa complicatissima soglia. No! Non perché dipenda dal limite della scienza; l’incapacità dell’uomo contemporaneo, “l’animal laburans”, di trovare le ingegnose risposte alla congenita ostinata opposizione di una natura oggettivamente complicata. Un giorno chissà quando questo sarà forse possibile, ma il progetto già ormai vecchio del 2011 – i tempi dell’obsolescenza tecnologica sono molto rapidi – è un “terno al lotto”. Nulla tuttavia potrà superare e compensare per lungo tempo le distruzioni destinate ad essere seminate su questo “specchio” di mare, sulle regioni che vi si affacciano e sui luoghi più caratterizzati della nazione, la quale per essere realmente unita ha bisogno solo di società coese e solidali.

L’opera è in sé insostenibile agli occhi della GEOGRAFIA: materia sparita inopinatamente dagli insegnamenti scolastici e che, nella formula di una scienza cognitiva del Territorio, è la più disertata nelle proposte politiche. Nel caso di Messina, trattandosi appunto di una complessità assai vasta e composita, appare surrogata da una semplicistica declinazione ordinaria della “sostenibilità”, ridotta ad una chiave essenzialmente tecnicistica.

L’indagine mai condotta dovrebbe infatti preoccuparsi della dimostrazione di una reversibilità; la possibilità di un pentimento. Non possiamo accettare il principio di una perdita così enorme senza la capacità di un ritorno; senza le cautele per un probabile ripensamento: ciò che ci viene sottratto – moltissimo di questa splendida geografia che non è di semplice natura estetica – non ci potrà più essere restituita. Il valore simbolico che appartiene ad un lunghissimo percorso, non potrà inoltre esserci restituito o sostituito da una semplice immagine tecnologica estranea che sottrae singolarità ai luoghi in cambio di una connotazione colonialistica. L’umanità contemporanea non può muoversi semplicemente come veicolo di flusso; molteplicità del consumo sempre più connesso ai processi di alienazione individuale ed alle fragilità sociali: vittima del reticolo invisibile della macchina, dell’apparato e delle immagini. 

La questione “Ponte” dunque non può essere semplicemente liquidata nella visionaria aspirazione di un meccanismo strutturale o peggio, nella retorica di una dimostrazione di efficacia politica, la quale peraltro consisterebbe nel suo opposto. Consisterebbe nella cessione al contractor di ingenti risorse pubbliche e a dimostrazione di un lacerante vuoto istituzionale, nella sostituzione delle scelte strategiche con l’interesse del privato. Si! Questo progetto è la negligente disattenzione cinica e punitiva della questione meridionale. Il rabbonimento dell’autocrate benefattore al posto delle innumerevoli necessità di civilizzazione che incombono sul contesto delle regioni; sulla atavica insuperata carenza dello stato; sulla insufficiente qualità dei servizi; sulla mancanza di reti tecnologiche e di mobilità; sull’assenza di una indispensabile politica culturale: paradossi che ciclicamente aggiornano l’idea di un “meridione” incapace o vittima di una condanna epocale. 

Il diritto di “Comunità” parte dal riconoscimento del perimetro esistenziale. Il ruolo della partecipazione ai processi di trasformazione deve avvenire nel rispetto di un’identità aperta; fatta di apporti innovativi contro supposte purezze e istinti neo razziali: qui si difende il volto di una civiltà e le sue molte patrie. 

La manifestazione del 2 dicembre ha dimostrato alla politica nazionale, assente nella trasversalità della iniziativa, la scarsa connessione ai territori, mostrandosi ancora inadeguata ad attualizzarsi nel contesto sociale, confinandosi nell’astrazione di un vuoto di nesso con le realtà. I partiti hanno forse creduto che il mondo dei “social”, la interazione immateriale, avesse già seppellito l’esigenza di una fisica partecipazione. “L’identitarismo è invece il linguaggio rovesciato di una volontà di riavere voce in capitolo da parte di coloro che ne sono stati privati”. É una manifesta esigenza di riprendere in mano il proprio destino di fronte all’esclusione degli stati “neoliberali”; risultato di un’atrofia dei territori giunti spesso ad una caotica macchinazione che sempre più colpisce le esigenze primarie dell’individuo.

Molte le macchinazioni ai danni della verità. La confusione tra ciò che è vero da ciò che è falso ha inquinato lo spazio pubblico. I numeri che scorrono sui “data” rappresentano una felicità aritmetica dimostrata su meccanismi costruiti da narratori interessati. Enumerano fattori e fatturati da capogiro, certi solo per le imprese d’alta tecnologia il cui campo di estrazione del profitto non è più il lavoro, sempre più a basso impiego di risorsa umana e altamente redditizi. L’opera pubblica è oggi il pozzo senza fondo del debito: realizzato normalmente quattro volte maggiore del suo preventivato in termini di costi e di tempi. Il rischio è quello di trovarsi tra i piedi per mezzo secolo qualche accidentale residuo che ingombra sinistramente le quotidiane vedute cittadine. Chissà: due enormi plinti, qualche gigantesco armamento. Gli scarti di un terzo mondo anticipato, come spesso accade al sistema. La funzione del progetto è strumento di contratto politico, dalle sue promesse dipendono: il destino degli eletti, e le “concessioni” di sfruttamento, ma la sua realizzazione appartiene all’apparato che ne distribuisce i dividendi. Cosicché il Ponte è solo un’immagine da cui è sottratta ogni reale relazione con il luogo rappresentando solo sé stesso. Si annuncia come il “futuro” attraverso l’epifania tecnologica, ma porta dentro un’idea artificiale, la vecchia idea retrograda di una quiete universale ormai ridotta ad una disastrosa rivoluzione di cui: dal mondo sommerso e sott’acqua, agli Appennini percossi e denudati, dalla urbanità immobilizzata, alla periferia addensata e devastata, proprio le Comunità sono Vittime.

Il gigantismo simbolico rappresenta ancora il volto del potere, la sopraffazione che mortifica il Paesaggio nelle sue varie originalità geografiche; il suo essere diversità, molteplicità umana, stratificazione delle storie, risorsa collettiva, ecc. Italia Nostra è stata da sempre avversa a questa idea. Ha richiamato l’attenzione su quanta incidenza avrà – quando mai costruita – nella mutazione del territorio nazionale dal momento che appunto l’infrastruttura non è un semplice modellino di plastica che si appoggia su di un pezzo di mare. La forma delle città, dei terreni agricoli, dei terrazzamenti sul versante calabrese, le aree archeologiche di Cannitello, quelle che in numero esorbitante giacciono sulle sponde di una continentalità rovesciata: dove il mare è terra e dove la terra è un mare. Ma questa è una sostanza così particolare che fatalmente sfugge ad una grossolanità così evidente come quella di un “ufficio” tecnologico.

Un artista ha sfrontatamente raffigurato nella formella del moderno portone bronzeo che chiude la soglia della cattedrale di Messina, una processione di fedeli che attraversa un visionario ponte sullo Stretto. Famiglie estasiate in greggi fuori tempo, camminano dietro il pastorale richiamo di un vescovo. Raggiungeranno comodamente, dall’altro capo del percorso, la Chiesa figurata nelle sembianze di papa Giovanni Paolo II. Fu eseguita nel lontano anno giubilare duemila. A questo punto sarebbe facile contrapporvi le Crocefissioni di Antonello da Massina: Sibiu e Anversa. Sarebbe se non fosse irriguardoso il paragone stesso di queste sublimi immagini di “osservante redenzione” con un’opera “brutalista” e brutta come quella di questo attrezzo miliardario. Dobbiamo tuttavia considerare che in quei paesaggi quattrocenteschi ogni attuale abitante dello Stretto non dovrà più sentirsi come il mercante di passaggio assorto nella visione di un Calvario domestico, impersonarsi piuttosto nell’uomo affisso e sacrificato.

La riproduzione della “Crocifissione di Antonello da Messina è tratta da wikipedia

La foto del portale della Cattedrale di Messina è di Michele Campisi

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